Musk, Trump e l’Europa: cosa nasconde davvero la multa da 120 milioni a X e chi ha ragione

di Livio Varriale
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Nel giro di poche ore la multa da 120 milioni di euro inflitta dalla Commissione europea a X – la piattaforma di Elon Musk, ex Twitter – è diventata molto più di un semplice provvedimento regolatorio. È il primo grande colpo messo a segno dal Digital Services Act (DSA), ma anche l’innesco di uno scontro politico e geopolitico che coinvolge Bruxelles, Washington e l’intero ecosistema dei social media. La decisione arriva il 5 dicembre 2025, al termine di un’indagine durata circa due anni.

Il punto di vista dell’Europa

Secondo la Commissione, X ha violato gli obblighi di trasparenza previsti dal DSA su tre fronti: il design ritenuto “ingannevole” della spunta blu legata a X Premium, la mancanza di un archivio pubblicitario completo e accessibile, e gli ostacoli posti all’accesso dei ricercatori ai dati pubblici della piattaforma. Per Bruxelles, la sanzione è un messaggio politico tanto quanto giuridico: le grandi piattaforme sono considerate very large online platforms e devono rendere conto all’Unione non solo su contenuti illegali e disinformazione, ma anche su come presentano servizi a pagamento, verifiche e pubblicità. Per questo i commissari insistono sul fatto che la multa non sarebbe censura, bensì un intervento su trasparenza, interfacce e accesso ai dati, in linea con l’architettura del DSA.

Le reazione della piattaforma e degli USA

La risposta di Elon Musk è stata immediata e incendiaria. Il fondatore di Tesla e SpaceX ha definito la sanzione “bullshit”, ha rilanciato l’idea che l’Unione europea andrebbe addirittura abolita e ha usato X per amplificare meme e contenuti che paragonano Bruxelles a un’“iper-burocrazia” ostile alla libertà di espressione e all’innovazione tecnologica.

Sul fronte politico statunitense, la multa è stata letta da parte dell’amministrazione Trump e di esponenti repubblicani come un attacco diretto a un’azienda americana e, per estensione, alla libertà di parola made in USA. Il presidente l’ha definita una “nasty one” e ha accusato l’Europa di imboccare una “cattiva direzione”, mentre membri del governo e figure di primo piano del Partito repubblicano hanno denunciato l’ennesimo caso di “overreach regolatorio” europeo ai danni delle big tech statunitensi.

Nel frattempo, X ha reagito anche sul piano operativo, disattivando l’account pubblicitario della Commissione europea e accusando Bruxelles di aver sfruttato un bug dell’Ad Composer per amplificare il post con cui annunciava la stessa multa. È un gesto simbolico, ma rende ancora più chiaro che lo scontro fra la piattaforma di Musk e le istituzioni europee si combatterà sia nei tribunali sia dentro l’infrastruttura dei social network.

Dentro questo scenario, la vicenda X–Europa diventa il pretesto per una domanda più ampia: quanto è davvero libera la libertà di espressione online in un continente dove le piattaforme sono “ospiti”, i regolatori rivendicano sovranità digitale, i governi cavalcano il malcontento e gli algoritmi vengono piegati – da tutti i fronti – a esigenze politiche e narrative?

Ed è qui che entra in gioco il cuore dell’analisi che segue… e che non leggerete altrove.

Le piattaforme come ospiti in territorio europeo

È successo, come si dice, “il finimondo” tra Elon Musk e la Commissione europea. La sanzione da 120 milioni di euro contro X per violazioni del Digital Services Act è il primo precedente di questo tipo e ha riacceso un conflitto che covava da tempo. Non è la prima volta, infatti, che l’Unione europea “pizzica” X: l’indagine sulla piattaforma era stata aperta già per la gestione della spunta blu, per la confusione fra verifica dell’identità e abbonamento e per la circolazione di crimini informatici e contenuti illegali che attraversano quotidianamente il social. L’aspetto centrale di questa vicenda, però, è un altro e riguarda un principio che in Europa viene spesso evocato, ma raramente tematizzato in modo trasparente: le grandi piattaforme di social media sono ospiti sul territorio europeo. Operano in uno spazio giuridico e politico che non controllano, ma da cui dipendono economicamente. Che questo principio venga finalmente chiarito, garantito e sancito è un bene. Allo stesso tempo, però, è impossibile ignorare che questa partita si gioca anche come guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa, con il Vecchio Continente che si percepisce “braccato”, dopo essere stato almeno apparentemente abbandonato da Washington come alleato privilegiato nella costruzione di regole condivise sull’economia digitale.

La multa all’ecosistema di Musk colpisce così non solo un imprenditore, ma la parte politica americana più esposta, quella vicina a Donald Trump, che in più occasioni ha messo in discussione la tenuta democratica dell’Europa con dichiarazioni aggressive, alludendo a un’Unione inefficiente, corrotta, burocratica. In un certo senso, questa sanzione sembra confermare, nella narrazione dei sovranisti, l’idea di un’Europa che soffoca la libertà di espressione mentre millanta di difenderla. È un paradosso che apre diversi punti di riflessione.

Una multa salata, ma solo “spiccioli” per Musk

Se guardiamo ai numeri, i 120 milioni di euro rappresentano una cifra enorme per qualunque impresa europea media, ma per un colosso come X, già sostenuto dalle altre attività industriali e dalle commesse di Elon Musk in Europa, sono sostanzialmente “spiccioli”, un costo di esercizio. Da questo punto di vista, è difficile pensare che una sola multa, per quanto storica, possa “fare passare il problema X” o il “problema Trump” dal continente europeo. Quello che dovrebbe invece far riflettere i cittadini europei è altro: la qualità e la coerenza delle dichiarazioni sulla libertà di espressione in Europa, lo spessore culturale e diplomatico delle istituzioni comunitarie, il rapporto fra Unione e singole sovranità nazionali. Dietro la facciata granitica dell’Europa unita, da anni cresce un malumore diffuso non solo nella classe politica ma soprattutto nella popolazione, che vede nei bilanci europei degli ultimi vent’anni una sequenza di fallimenti: piani economici discutibili, scandali di corruzione che emergono periodicamente e il costo di una macchina burocratico-amministrativa che appesantisce ulteriormente i già fragili conti pubblici locali e nazionali. In questo contesto, la sanzione a X rischia di diventare l’ennesimo simbolo di un’Europa che colpisce duro verso l’esterno, ma non riesce a risolvere le proprie fragilità interne.

Sovranisti, Stati Uniti e un’Europa che non controlla le piattaforme

C’è poi un elemento politico determinante: la presenza sempre più strutturata dei sovranisti nel Parlamento europeo e nei parlamenti nazionali, con forze che mirano apertamente a smantellare o svuotare l’istituzione europea, restituendo centralità agli Stati patria. Una prospettiva che, nelle relazioni internazionali, finirebbe col favorire soprattutto gli Stati Uniti, liberi di intavolare contrattazioni di tipo puramente “business to business” e di chiudere accordi bilaterali modello “one-to-one” senza dover passare dalla mediazione di un intero continente. Dietro la multa a X si nasconde anche il fallimento dell’Europa nella gestione delle piattaforme digitali. Ad oggi non esistono strumenti davvero efficaci per gestire in modo rapido e garantista situazioni complesse come la chiusura improvvisa – e spesso immotivatadi profili di informazione, la rimozione selettiva di contenuti scomodi, la segnalazione strumentale da parte di competitor o gruppi organizzati che puntano a far zittire voci indipendenti. Un caso emblematico è proprio quello vissuto da realtà come Matrice Digitale, che si sono viste sospendere o limitare profili ufficiali sulla base di segnalazioni e automatismi opachi, mentre le stesse piattaforme non riescono – per limiti di quantità, di volontà o di competenze – a intervenire con la stessa severità su profili che alimentano crimini informatici, truffe, campagne coordinate di disinformazione.

In questo quadro, l’Europa sanziona X ma non costruisce ancora un’architettura snella, un organismo indipendente e veloce, capace di gestire in tempo reale i conflitti fra piattaforma, cittadini, media e autorità. Il risultato è che la tutela della libertà di espressione resta proclamata nelle premesse, ma molto più fragile nella pratica quotidiana.

Il cortocircuito del Digital Services Act e dei fact-checker finanziati da Bruxelles

Il Digital Services Act nasce con l’ambizione di mettere ordine nel caos dei contenuti e dei servizi online. Costruisce un’intera architettura di codici di condotta, obblighi di trasparenza, procedure di segnalazione e rimozione, ma anche un ecosistema di fact-checker e “verificatori di informazione” che, nella teoria, dovrebbero contrastare le fake news e le campagne di disinformazione. Nella pratica, però, molti di questi fact-checker operano grazie a finanziamenti diretti o indiretti dell’Unione europea, con un evidente conflitto di interessi che li rende più simili a strumenti di conferma delle narrazioni utili alla propaganda istituzionale che a garanti indipendenti della verità dei fatti. Lo si è visto sulle campagne legate ai vaccini, sui conflitti internazionali, sull’utilità politica dell’Unione europea stessa e, più di recente, sulla difesa di progetti controversi come Chat Control, presentato come strumento di tutela dei minori e della sicurezza ma percepito da molti come una minaccia alla cifratura e alla privacy. Più volte questi apparati, nati per smentire le fake news, hanno dovuto fare marcia indietro o lasciare nel silenzio smentite imbarazzanti che arrivavano dai fatti, da nuove ricerche o da sentenze. Nel frattempo, gli utenti “semplici” e i giornalisti indipendenti continuano a svolgere un lavoro di verifica che a volte si dimostra più accurato e tempestivo di quello degli “esperti certificati”. In questo contesto, fa riflettere che lo stesso DSA pretenda da X una serie di verifiche e controlli che la piattaforma, nel bene e nel male, ha provato ad affiancare con uno strumento alternativo: le Community Notes.

Community Notes contro fact-checker: chi decide la linea editoriale?

Le Community Notes sono uno dei punti più controversi ma anche più innovativi dell’esperimento X sotto Musk. Non sono perfette, non sono immuni da abusi e riflettono ovviamente i bias della comunità che le scrive. Tuttavia, hanno un merito: non impongono a un gruppo ristretto di fact-checker – spesso legati a governi, istituzioni o grandi gruppi editoriali – il potere di decidere unilateralmente la linea editoriale delle piattaforme. Invece di certificare dall’alto ciò che è “vero” e ciò che è “falso”, le Community Notes mettono in moto una forma di smentita dal basso, in cui gli utenti possono aggiungere contesto, fonti, dati, e il sistema decide la visibilità delle note in base al consenso trasversale tra utenti con orientamenti diversi.

Quando questo meccanismo funziona, si attiva una capacità critica che coinvolge nuove e vecchie generazioni, costringendole a ragionare, a verificare, a confrontare versioni diverse dei fatti.

È un processo quasi “analogico” dentro l’ecosistema digitale: un invito a non limitarsi alla verità certificata dall’alto, spesso blindata da sigilli istituzionali che la rendono inattaccabile, anche quando si rivela errata o incompleta. Le Community Notes, al contrario, mantengono aperta la possibilità di contestare, integrare, correggere. Di fronte a questo modello, l’Unione europea preferisce però rafforzare il proprio apparato di fact-checking finanziato, invece di interrogarsi sulla possibilità di rendere più trasparenti e pluraliste le proprie strutture di controllo dell’informazione.

Meta, Google e il doppio standard sulla disinformazione

Mentre X viene messa sotto accusa per design ingannevoli, repository pubblicitari lacunosi e presunta tolleranza verso la disinformazione, altre piattaforme continuano a muoversi in uno spazio grigio che raramente viene affrontato con la stessa durezza. Il gruppo Meta – che controlla Facebook, Instagram, Threads e WhatsApp – è noto da anni per la sua capacità di monetizzare il crimine: truffe, campagne di odio, contenuti borderline che generano engagement e da cui la piattaforma riesce comunque a estrarre entrate pubblicitarie, tanto da arrivare a incidere in modo significativo sui bilanci del gruppo. Sul fronte della ricerca e dell’informazione, gli algoritmi di Google costituiscono una forma di censura strutturale molto più silenziosa ma non meno incisiva: notizie che non rientrano in determinati requisiti editoriali o che non appartengono a specifici circuiti di media “riconosciuti” vengono semplicemente rese invisibili. Vengono puniti gli editori che non si allineano a certe logiche di mercato o a determinate gerarchie internazionali dei contenuti. Il risultato è che chi non fa parte di questi circuiti – dai piccoli media locali ai progetti indipendenti, fino alle voci più critiche verso l’assetto geopolitico attuale – si trova di fatto espulso dal campo visibile dell’informazione digitale, senza che ci sia una sentenza formale o una decisione esplicita di censura. In questo scenario, X continua invece ad alimentare una ricerca dal basso, una circolazione di fonti alternative, incluse quelle apertamente avverse alla tenuta dell’Unione europea. Ed è proprio questo pluralismo caotico – fatto anche di errori, fake, manipolazioni – a spaventare le istituzioni, più che il singolo post scomposto di Musk o di Trump.

Algoritmi pilotati da tutti: non solo Musk e Trump

Uno degli argomenti più sfruttati nel dibattito seguito alla multa riguarda l’accusa secondo cui Elon Musk e Donald Trump avrebbero “pilotato l’algoritmo” di X, piegandolo ai propri interessi. Che l’algoritmo sia stato influenzato dalle scelte del nuovo proprietario è evidente, così come è evidente che le preferenze della base trumpiana e filo-sovranista abbiano spinto la piattaforma verso determinate priorità. Ma questo dovrebbe semmai far riflettere chi finge di dimenticare che gli algoritmi delle piattaforme vengono manipolati da anni da tutti gli attori in gioco. L’Unione europea, in particolare, ha usato regolamenti, minacce di sanzioni e pressioni sui lobbisti dei social media per piegare la moderazione dei contenuti a finalità politiche e spesso ideologiche: dalle campagne “woke” alle campagne contro l’“odio in rete”, fino alle crociate contro i famosi bot stranieri, ricondotti quasi sempre – almeno nella narrativa ufficiale – alle attività della Russia. Solo negli ultimi anni, soprattutto su X, si è iniziato a scoprire che una quota non trascurabile di questi bot, account coordinati e campagne d’influenza ha una derivazione filo-atlantista, legata cioè a interessi occidentali, statunitensi o NATO-centrici. Questo rompe la comoda dicotomia fra “noi” e “loro” e rende più difficile dipingere ogni disfunzione dell’ecosistema informativo come frutto esclusivo di potenze ostili esterne. Se le stesse frasi pronunciate da Musk e Trump sulla perdita di libertà di espressione in Europa fossero state dette da figure percepite come meno divisive, probabilmente avrebbero generato un’indignazione ben diversa, forse perfino maggiore e, soprattutto, sarebbero state prese più sul serio dai media mainstream. Ma quando a parlare sono due personaggi polarizzanti, è più facile liquidare tutto come propaganda interessata, senza entrare nel merito dei problemi.

Problemi che sono evidenti a tutti, anche ai nostalgici dell’Europa che, pur di restare in piedi dopo vent’anni, ha bisogno di una guerra, un’emergenza sanitaria e di un’unica voce.