L’esplosione delle AI overview di Google ha segnato un punto di non ritorno. Non è solo una nuova funzione tecnologica, né un miglioramento dell’esperienza utente. È la certificazione definitiva di un principio che, di fatto, ha fritto il settore dei giornali e delle televisioni. Il mondo dell’informazione, così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, è stato progressivamente svuotato della propria funzione autonoma e riconsegnato, senza più ambiguità, nelle mani di Google.
Non è un caso. Oggi circa il 90% delle ricerche in Europa passa da Google. Non è un dato neutro, né un semplice indicatore di efficienza tecnologica. È il risultato di un processo lungo, iniziato almeno nel 2007, quando Google News ha cominciato a prendere piede come snodo centrale della distribuzione delle notizie nel continente. All’epoca, il panorama era ancora dominato da giornali e televisioni, e le piattaforme tecnologiche non avevano ancora assunto quella funzione strategica e sistemica che oggi appare evidente. Ma il seme era stato piantato e tra i primi a farlo fu l’allora direttore de La Stampa di Torino Gianni Riotta con un accordo stipulato con Google News mentre La Repubblica corteggiava Facebook con cui negli anni ha consolidato un rapporto andato oltre le classiche sponsorizzate dei post e culminato oggi con la cessione del gruppo editoriale da parte di Elkan in cambio di un posto nel board nel gruppo Meta.
Cosa leggere
Google News e la costruzione del dominio informativo
Nel frattempo, Google ha stretto accordi strutturali che hanno progressivamente chiuso lo spazio cibernetico. Gli accordi con la NATO sul cloud rappresentano uno snodo simbolico e operativo: la tecnologia privata diventa infrastruttura geopolitica, e lo spazio digitale viene inglobato in un perimetro di sicurezza e controllo che travalica la semplice innovazione industriale. In questo contesto, parlare di concorrenza o pluralismo informativo diventa un esercizio retorico.
Vent’anni di editoria sotto pressione algoritmica
Ci sono voluti quasi vent’anni per arrivare a una conclusione che gli addetti ai lavori, gli appassionati di editoria e chi osservava con attenzione l’evoluzione del settore avevano già compreso da tempo: lo strapotere di Google non riguarda solo la pubblicità o la tecnologia, ma la visibilità stessa delle notizie. La distribuzione dell’informazione è diventata una funzione algoritmica, regolata da criteri opachi e mutevoli, non da scelte editoriali.
Non è un caso che molti soggetti, soprattutto nel segmento dei media digitali indipendenti, abbiano cercato per anni di “entrare” nelle porte di Google, tentando di forzare un accesso strutturalmente chiuso. Google non è mai stata una semplice piattaforma neutra, ma un gatekeeper che decide chi esiste e chi scompare nel flusso informativo.
La motivazione è sempre stata la stessa: senza visibilità algoritmica non c’è traffico, e senza traffico non c’è sostenibilità economica.
Social network e autorevolezza delegata agli algoritmi
Con l’ingresso dei social network, questo meccanismo si è ulteriormente radicalizzato. L’autorevolezza dei giornali è stata progressivamente svuotata, sostituita da un’autorevolezza “prestata” dagli algoritmi di Google e dalle dinamiche di condivisione sui social. Non conta più la qualità del lavoro giornalistico, ma la sua compatibilità con i sistemi di ranking, engagement e certificazione automatica delle notizie. Un sistema che nulla ha a che vedere con il giornalismo serio, di qualità, fondato su principi di verità e verifica.
Il contesto politico italiano e la partita sull’editoria
Questa è la storia che da anni viene denunciata da Matrice Digitale, ma oggi il quadro si è fatto ancora più contorto. L’Italia si trova di fronte a un governo in cui il partito di riferimento dell’editoria privata è Forza Italia. Ed è proprio in questi giorni che, attraverso il sottosegretario Alberto Baracchini, a capo del Dipartimento per l’editoria e l’informazione, è stato avviato un percorso per “fare luce” sulla questione delle AI overview di Google.

Le AI overview non sono altro che riassunti generati dall’intelligenza artificiale a partire da notizie e fonti di ricerca, pensati per fornire risposte rapide, comprese quelle vocali veicolate dalle applicazioni basate su LLM. Nel caso di Google, il meccanismo è chiaro: una breve descrizione iniziale, contenuti di prossimità selezionati, talvolta contenuti a pagamento, mentre le notizie originali vengono relegate ai margini, parcheggiate nella rete con una rappresentanza minimale.
Mediaset, La7 e le occasioni mancate della politica
L’aspetto che dovrebbe far riflettere – e persino sorridere amaramente – è che la stessa area politica che per anni ha dichiarato di combattere lo strapotere delle “biblioteche” mediatiche, a partire da Mediaset, avrebbe potuto, con una politica decente, tutelare gli interessi di decine di migliaia di lavoratori impegnati nel settore editoriale, pubblico, privato e parastatale. Le dimensioni di Mediaset e de La7 raccontano di un comparto industriale vasto, che avrebbe potuto essere difeso attraverso una strategia di sovranità informativa.
Europa, dipartimento editoria e fallimenti strutturali
Invece, una sequenza di fallimenti – aggravata dalla necessità europea di creare una cabina di regia unica sull’informazione – ha finito per sciogliere la sovranità delle emittenti, statali e private, affacciate sui mercati europei. Il Dipartimento dell’informazione è perfettamente consapevole di questo scenario. Non a caso, Mediaset si ritrova ancora una volta, con un governo di centrodestra, ad avere un proprio ex dipendente in un ruolo chiave, da tempo impegnato come politico e lobbista degli interessi della famiglia Berlusconi.
Il Dipartimento per l’editoria e l’informazione, nato con l’ambizione di affrontare l’annoso problema dell’impatto dell’intelligenza artificiale sull’editoria, ha finito per produrre una sequenza di fallimenti clamorosi. L’introduzione delle AI overview e l’esplosione dell’AI nei motori di ricerca hanno paradossalmente premiato siti editoriali strutturati per monetizzare con Google Discover, completamente dipendenti dagli algoritmi e non sempre strutturati per un “giornalismo di qualità“: mantra che Google propina come scusa da tempo agli editori.
Google News Initiative e il conflitto arbitro–giocatore

Google, nel frattempo, si vanta pubblicamente della propria Google News Initiative, sostenendo di aver stretto rapporti con Il Messaggero e, indirettamente, con il Financial Times, sotto forma di consulenze. Google afferma di aver implementato sistemi, in collaborazione con chi gestisce l’edicola digitale, capaci di garantire un aumento del 30% delle entrate e delle visualizzazioni. Ma la domanda di fondo resta inevasa:
come può un sistema editoriale che rappresenta una fetta di mercato enorme, con migliaia di lavoratori in Italia e decine di migliaia in Europa, essere gestito da un soggetto che è al tempo stesso arbitro e giocatore?
Soprattutto, come può un Diego Ciulli qualsiasi andare in giro nello sventolare partnership private tra Google, università e quotidiani specifici, molto attivi nell’ultimo periodo con notizie al limite della propaganda atlantista e che promuovono allo stesso tempo teorie belliciste non confermate? Che il Messagero sia anche un progetto pilota successivo all’accordo Google – Nato?

Aggiungiamo anche che, se per giornalismo di qualità si intendono i video di 10 secondi e le liste negli articoli, allora è chiaro che l’AI non aiuterà il giornalismo ed i lettori, ma i controllori.
Bilanci, governance e figure controverse
Il conflitto di mercato è palese. E chi vive quotidianamente queste difficoltà lo sa bene. Se per i piccoli editori la situazione è già drammatica, è lecito chiedersi come facciano i grandi gruppi a far quadrare i bilanci, nonostante le rassicurazioni continue, soprattutto da parte di Mediaset, che parla di espansione e acquisizioni in Europa. Funzioni che oggi sembrano portare benefici, ma che, senza una solidità di business reale, rischiano di sgonfiarsi come una bolla.
E lo scenario che potrebbe ripresentarsi in questi casi sarebbe quello di vendere la baracca a colossi internazionali e garantirsi un posto nel board di una OTT come Google e seguire le orme degli Elkann.
Il quadro diventa ancora più paradossale se si osserva la governance. A capo della commissione sull’intelligenza artificiale applicata all’editoria del Dipartimento dell’informazione c’è Paolo Benanti. Nessuna esperienza diretta nel mondo editoriale, figura controversa nel giornalismo, editorialista per diverse testate nazionali, partito dalla Pontificia Accademia grazie all’immateriale Etica dell’AI, sbugiardata da chi si occupa in pieno della materia, ed arrivato alla LUISS dopo cumuli di incarichi nel Governo: origine della visibilità mediatica sui grandi media oggi sofferenti.

Sarà sicuramente una coincidenza quella che vede la stessa Google essere protagonista di un progetto di giornalismo e intelligenza artificiale con l’università dove siede da poco il Presidente della commissione per l’Editoria e l’Informazione Paolo Benanti consulente di Mountain View e responsabile di governo. Il fatto che per questo tipo di attività venga scelta una università privata, la dice lunga sulle qualità della classe dirigente accademica italiana.
Il problema non è la Luiss, ma tutto il resto del mondo accademico che con finanziamenti pubblici diretti non è in grado di creare un reale contrappeso.
La riunione natalizia e la presenza di Google
Ancora più significativo è quanto accaduto durante una riunione convocata d’urgenza sotto le festività natalizie da Baracchini. Tra i presenti, accanto ai rappresentanti degli editori in crisi, è stato convocato Diego Ciulli, noto ai lettori di Matrice Digitale come portatore degli interessi di Google in Italia.

Una figura, anche lui, che non ha competenze nell’editoria o addirittura nel giornalismo, ma che, attraverso i comunicati ufficiali di Google, promuove una narrazione “bipartisan” e multilaterale dell’azienda, mentre in realtà difende un principio di monopolio. Ed è ancora più evidente che se il giornalismo fosse davvero di qualità, non ci sarebbe bisogno di stringere costantemente le maglie dell’algoritmo per evitare l’ingresso di nuovi soggetti e far fuori quelli presenti, oppure inventarsi la certificazione delle informazioni per chiudere gli spazi del mercato.
Autorevolezza smantellata e certificazione delle notizie
L’immagine simbolica è potente: Baracchini al centro, Benanti fotografato mentre parla al cellulare, gli editori in attesa di risposte concrete. Un tavolo che somiglia più a una partita di poker che a una sede istituzionale. Mediaset, già al centro di altre vicende – dal caso Corona alla gestione complessiva del mercato editoriale – si ritrova di nuovo in una posizione ambigua. Le “biblioteche” mediatiche, come denunciate in passato anche da Marina Berlusconi, continuano a esercitare un controllo pervasivo.
Il risultato è che l’autorevolezza dei giornali è stata smantellata. Al suo posto, un sistema in cui l’autenticità delle notizie viene certificata da grandi agenzie nazionali e internazionali, che forniscono bollini di validazione spesso scollegati dalla verifica reale dei fatti. In molti casi, su questioni sensibili, questo sistema ha sfiorato apertamente la propaganda, mentre il pubblico si orienta verso nuove forme di informazione, spesso alternative e non istituzionalizzate.
Politica, multinazionali e fine della tutela
In questo scenario, vale la regola antica: chi è causa del suo male pianga se stesso. Non è affatto detto che Mediaset o Baracchini riescano a fare ciò per cui occupano le caselle di potere nel Parlamento italiano. E non è affatto detto che lo scopo storico del berlusconismo – il controllo dell’ecosistema mediatico – possa ancora essere perseguito con gli strumenti di oggi e con la concorrenza spietata che non è quella di un tempo, ma molto più potente ed influente su scala globale.
Le multinazionali tecnologiche non solo governano le regole del mercato, decidendo chi può stare dentro e chi fuori, ma controllano anche l’accessibilità stessa dell’informazione. Gli algoritmi determinano la visibilità, e la politica, ai massimi livelli, sembra incapace – o non intenzionata – a creare canali preferenziali che tutelino davvero editori e giornalisti.
Giornalisti, ordine professionale e silenzio istituzionale
Quando i giornalisti lamentano di non essere ascoltati, quando la stessa Giorgia Meloni viene accusata di non voler parlare con loro, il problema è strutturale. Chi chiede aiuto all’Ordine riceve come unica risposta il pagamento di una quota annuale. Nessuna tutela reale contro gli abusi di potere delle grandi multinazionali tecnologiche e non risultano istanze ufficiali dagli organi nazionali preposti .
Un suicidio annunciato dell’editoria
Il risultato finale assomiglia a un suicidio annunciato dell’editoria, dell’informazione, della libertà di stampa e di espressione. Un processo lento, ma ormai conclamato. E mentre l’intelligenza artificiale di Google riscrive, sintetizza e sostituisce le notizie, il giornalismo rischia di restare una voce residuale, tollerata finché non disturba l’equilibrio del monopolio.