Lo sciopero dei giornalisti contro le mancate garanzie nel settore dell’informazione esplode mentre governa Meloni, in un momento in cui l’intero sistema mediatico italiano vive una crisi strutturale senza precedenti. Nel silenzio quasi generale, la protesta mette in scena il malessere di una categoria che denuncia precarietà, perdita di autonomia, dipendenza dalle piattaforme e concentrazione del potere, ma lo fa tardi, quando molte scelte compiute negli anni hanno già consegnato la centralità dell’informazione a Google, ai social network e agli algoritmi che decidono chi vede cosa. In questo quadro, Matrice Digitale sceglie di non aderire allo sciopero: non per disinteresse, ma perché le stesse criticità oggi portate in piazza sono le stesse che la testata denuncia da anni, fin dai tempi de “La prigione dell’Umanità” (2017), quando criticare i grandi media significava perdere visibilità e inimicarsi il sistema. Il diritto di un popolo a essere informato e la libertà del giornalismo sono stati sacrificati sull’altare di un ecosistema dominato da algoritmi e fact checker istituzionalizzati, mentre l’edicola italiana veniva progressivamente sequestrata da pochi attori globali che controllano accesso, visibilità e sopravvivenza economica.
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Lo sciopero sotto il governo Meloni e il risveglio tardivo dei media
Lo sciopero arriva “sotto il governo Meloni” e la domanda centrale è inevitabile: perché proprio adesso? Per anni, governi di orientamento diverso hanno mantenuto rapporti ambigui con il mondo dell’informazione, giustificando ogni intervento con la retorica della qualità, mentre il settore crollava. Le redazioni che oggi protestano sono le stesse che, per decenni, hanno goduto di vicinanza strutturale al potere, garantendosi posizioni, spazi e pubblico. Figure come Corrado Formigli o Milena Gabanelli, punti di riferimento televisivi, solo ora mostrano una sensibilità critica verso il sistema, anche sull’eco delle denunce di Sigfrido Ranucci sul caso Garante privacy e sulle ritorsioni del potere che conta al giornalismo di inchiesta. Ma la verità è che le prime inchieste sui rapporti tra istituzioni, big tech e regolatori non sono nate nella grande Rai: sono state portate avanti da realtà come Matrice Digitale, che ha raccontato conflitti e interferenze quando non era conveniente farlo ed aveva già tracciato il solco del ministero della verità europeo prim’ancora che fosse visibile.
Scioperare solo oggi, dopo anni di silenzi, rischia di essere più un gesto identitario che un atto di rottura. La categoria denuncia un sistema che ha contribuito a costruire, accettando algoritmi, partnership opache e modelli editoriali dipendenti dai giganti americani.
Perché Matrice Digitale non ha scioperato
La scelta di non aderire allo sciopero nasce dalla consapevolezza che le ragioni della protesta coincidono da anni con le denunce ignorate dall’industria. Precarizzazione strutturale, dipendenza dagli algoritmi, dominio delle piattaforme, selezione politica della visibilità: tutto questo è stato normalizzato. Quando criticare Google o Meta voleva dire esporsi al rischio di sparire dalle ricerche o perdere opportunità commerciali, la maggior parte dei media ha preferito tacere. Le stesse redazioni che oggi guidano lo sciopero hanno beneficiato della prima fase del patto con le piattaforme, ottenendo traffico, inserzioni e protezione algoritmica, mentre chi denunciava abusi veniva bollato come marginale. Ora che il sistema non è più conveniente, messo alle strette dagli stessi attori che avevano sostenuto, molti media cercano di intestarsi una battaglia per la libertà d’informazione. Ma la contraddizione è evidente: la denuncia arriva dopo anni in cui si è contribuito a rendere l’informazione italiana fragile e dipendente. Contestare l’ecosistema senza ammettere il proprio ruolo nella sua costruzione significa rifiutare l’autocritica necessaria.
Dalla qualità al mercato: il giornalismo schiavo dell’algoritmo
Per anni ci si è raccontati che il problema fosse la qualità dell’informazione. In realtà, il nodo è sempre stato il mercato controllato dagli algoritmi. La qualità è stata usata come narrativa morale, mentre la vera selezione la compivano — e la compiono — gli algoritmi di Google e dei social. Il giornalismo è diventato un lavoro condizionato da una catena di montaggio invisibile: se un contenuto “non piace” all’algoritmo, non esiste. Non viene mostrato, non viene letto, non porta introiti. Il risultato è una distorsione sistemica: gli editori, oltre a pagare i giornalisti, devono pagare le piattaforme per ottenere visibilità. E questa visibilità, nella maggior parte dei casi, non si traduce in conversioni reali. Il vecchio modello dell’edicola fisica, luogo democratico di scelta, è stato sostituito da un’edicola digitale globale controllata da un’unica entità: Google. Una vetrina algoritmica che offre visibilità condizionata e invertibile, governata da logiche commerciali più che editoriali. Parlare di qualità senza affrontare il tema della distribuzione controllata dagli intermediari significa raccontare solo metà della verità.
L’edicola sequestrata da Google: visibilità, pubblicità e truffa sistemica
La trasformazione dell’edicola è il cuore della crisi: Google non si è limitata a indicizzare i contenuti, ma ha assunto il ruolo di editore di fatto. Decide cosa appare, in che ordine, con che priorità. La cosiddetta “truffa di Google” non riguarda solo la pubblicità: riguarda un modello che si presenta come neutrale mentre è parte centrale della crisi economica dell’editoria. Google finanzia progetti editoriali, stringe accordi selettivi, premia linee narrative conformi su temi sensibili come vaccini, guerra, clima, e penalizza chi esce dal solco. È legittimo chiedersi se finanzierà mai chi indaga criticamente questi temi. La risposta è nelle dinamiche del potere algoritmico: la piattaforma premia ciò che rafforza il suo ecosistema, non ciò che lo mette in discussione.
In questo scenario i giornali, dopo aver ceduto autonomia in cambio di visibilità in danno ai competitor, sono oggi schiavi di un modello che non controllano più.
Social network, contenuti rubati e monetizzazione zero
Parallelamente, i social network hanno completato un processo ancora più radicale: hanno convinto giornalisti ed editori a portare i contenuti direttamente sulle piattaforme. L’edicola social è diventata un flusso infinito di frammenti: titoli, estratti, video brevi, clip decontestualizzate. Le piattaforme hanno ottenuto contenuti gratis, mentre restituiscono agli editori monetizzazioni marginali o nulle. Molti giornalisti, trasformati in influencer, hanno spostato il proprio baricentro dai testi ai video autoreferenziali, contribuendo allo stesso sistema che oggi li supera. Di fronte allo sciopero, la macchina algoritmica non si ferma: continua a produrre, distribuire, monetizzare.
Fact checker, agenzie e intelligenza artificiale: chi decide cosa è vero
Il potere dei fact checker istituzionali ha introdotto un meccanismo in cui la verità non è più frutto di un’indagine giornalistica, ma una funzione di governance. Le etichette che vediamo sulle piattaforme non classificano solo contenuti: classificano persone, creando categorie stigmatizzanti e permanenti. Chi critica determinati assetti — dalle fondazioni ai network progressisti fino alle big tech — viene marginalizzato. Il problema non è il fact checking in sé, ma la sua istituzionalizzazione dentro una rete di potere che risponde più alla politica e alle piattaforme che alla ricerca della verità.
Il ruolo di Paolo Benanti, Barachini e la preda istituzionale dell’editoria
La commissione governativa su IA ed editoria, con figure come Paolo Benanti e Alberto Barachini, rivela una cattura istituzionale della regolazione. Benanti, vicino a Microsoft e alla Luiss dove ha sede la cellula italiana dell’EDMO. non ha mai aperto un confronto pubblico serio sullo stato dell’informazione; Barachini, legato al mondo Mediaset, rappresenta il punto di contatto tra governo, l’emittente di Forza Italia e big tech. Nel frattempo, studi stimano che l’IA solo sostituendo l’11% dei posti fissi negli Stati Uniti, risparmiando alle aziende più di mille miliardi di euro equivalenti: un segnale che la narrativa dell’IA “salvifica” serve più a rassicurare che a descrivere la realtà fatta di disoccupazione e l’ingresso dell’AI Overview rende l’idea. Il governo Meloni che prometteva di difendere la sovranità digitale si affida oggi alle stesse élite globali che criticava.
AgCom, Google e il cortocircuito dei regolatori
La crisi editoriale italiana è aggravata dalla postura delle Autorità Indipendenti. Episodi come la presenza di un presidente Agcom accanto a un delegato Google in contesti pubblici mostrano un conflitto strutturale. Chi dovrebbe controllare sembra troppo vicino ai controllati. Il caso di Matrice Digitale, rimossa da YouTube in meno di un mese senza tutela nazionale, ne è un esempio: istituzioni assenti, rimbalzi di competenze, necessità di ricorrere all’Europa.
Siamo ancora in attesa di una risposta alla PEC da chi avrebbe dovuto prendere non le difese, ma almeno interessarsi su quanto occorso a un giornalista ed a una testata registrata: l’Ordine che oggi sciopera.
Stessa cosa l’ha fatta Barachini premiando in prima persona addirittura il lobbista Diego Ciulli, con cui siede a diversi tavoli istituzionali, che spiega su LinkedIn ai giornalisti ed editori che non bisogna più scrivere, ma fare video brevi e che Google continuerà a premiare la qualità dei contenuti e si vanta del fatto che da quando Google non fornisce più rilevanza alle notizie, il settore è crollato.
Dimentica, il sodale di Barachini e Benanti, che se i media dipendono da Google è anche perché la sua azienda ha il monopolio su visibilità e pubblicità da 20 anni a questa parte.
Editoria locale, acquisizioni e dipendenza dalle piattaforme
Le acquisizioni di testate locali — spesso incoraggiate da Google con la promessa di premiare l’informazione porta a porta — hanno concentrato il potere editoriale in pochi gruppi, che ora dipendono totalmente dalle piattaforme per traffico e monetizzazione. Famiglie come gli Elkann stanno abbandonando le testate storiche dopo aver investito nella nuova edicola globale rappresentata dai social. La stampa locale, un tempo essenziale, è stata inglobata in logiche di distribuzione estranee ai territori e questo lo sa bene Elkann che ha preferito perderci e vendere a un fondo saudita, tenendosi stretto il posto nel consiglio di amministrazione di Meta.
Maschere, piattaforme e nuovo potere editoriale globale
La mossa di Elon Musk, che ha acquistato direttamente una piattaforma invece dei giornali, sintetizza la nuova geografia del potere: non controlli il contenuto, ma il luogo dove il contenuto passa e questa cosa non è stata digerita a suo tempo da Benanti che ha patteggiato pubblicamente contro X e preso parte alla narrazione democratica statunitense sulla tv pubblica, discettando sulla cristianità di Trump e Musk. È questo il nuovo modello editoriale globale. E in questo modello, lo sciopero dei giornalisti sembra un gesto che non sposta più nulla: l’infrastruttura è già altrove.
Una sovranità editoriale italiana: l’edicola come infrastruttura pubblica
Se l’editoria italiana vuole sopravvivere, deve reclamare una sovranità sull’edicola: infrastruttura, algoritmi, distribuzione. Serve un modello in cui lo Stato finanzia con criteri rigorosi l’indipendenza reale e la pluralità, senza trasformare il settore in assistenzialismo come avvenuto per superbonus e reddito di cittadinanza. Serve ristrutturare la filiera e sottrarla al monopolio delle piattaforme, altrimenti ogni discussione sulla qualità sarà inutile, ma vista l’esigenza di controllare il consenso in un momento in cui le alte istituzioni europee gridano al si vis pacem, parabellum, l’etica sventolata da un francescano è la migliore arma di distrazione della massa possibile.