Un hacker ucraino ha ammesso formalmente il proprio ruolo come affiliato all’interno dell’ecosistema ransomware Nefilim, fornendo uno spaccato raro e dettagliato su come operavano le gang ransomware-as-a-service prima del loro declino operativo. La confessione rappresenta uno dei pochi casi in cui un affiliato descrive in modo diretto il funzionamento interno di una delle famiglie ransomware più attive tra il 2019 e il 2021. Il caso assume un valore che va oltre la singola vicenda giudiziaria. Nefilim, infatti, è stato uno dei gruppi che hanno contribuito a strutturare il modello industriale del ransomware moderno, basato su una netta separazione dei ruoli tra sviluppatori, operatori e affiliati. L’ammissione di colpa consente oggi di ricostruire con maggiore precisione la catena di attacco, le responsabilità operative e il livello di consapevolezza degli attori coinvolti.
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Il profilo dell’affiliato e l’ammissione di responsabilità
Secondo quanto emerso, l’hacker ucraino non era uno sviluppatore del malware né un membro del “core team” di Nefilim. Il suo ruolo rientrava pienamente nella categoria degli affiliati, figure incaricate di compromettere le reti delle vittime, muoversi lateralmente all’interno delle infrastrutture, esfiltrare dati sensibili e infine distribuire il ransomware fornito dal gruppo centrale. L’ammissione riguarda attività svolte in un arco temporale in cui Nefilim colpiva organizzazioni di grandi dimensioni, spesso con infrastrutture complesse e alto valore economico. L’affiliato ha riconosciuto di aver partecipato consapevolmente a operazioni di estorsione digitale, accettando la logica della double extortion, cioè la combinazione tra cifratura dei sistemi e minaccia di pubblicazione dei dati rubati. Questo elemento è centrale, perché conferma come gli affiliati non fossero semplici esecutori tecnici inconsapevoli, ma attori pienamente integrati nel modello criminale, informati sulle modalità di monetizzazione e sulle conseguenze per le vittime.
Nefilim e il modello ransomware-as-a-service
Il ransomware Nefilim nasce come evoluzione diretta del codice di Nemty e si inserisce nella seconda ondata di ransomware “professionali”, caratterizzati da una forte organizzazione interna. Il gruppo centrale sviluppava e manteneva il malware, gestiva l’infrastruttura di pagamento e i siti di data leak, mentre gli affiliati si occupavano della parte più rischiosa e operativa degli attacchi.
In cambio, gli affiliati ricevevano una percentuale del riscatto, spesso compresa tra il 70% e l’80%, a seconda degli accordi. Questo modello ha permesso a Nefilim di scalare rapidamente, colpendo aziende in settori critici come manifattura, servizi professionali, energia e sanità.
L’ammissione dell’hacker ucraino conferma che l’accesso iniziale avveniva spesso tramite credenziali compromesse, exploit su servizi esposti o movimenti laterali a partire da sistemi già violati. Una volta ottenuto il controllo della rete, l’affiliato preparava il terreno per l’attacco finale, disattivando backup, strumenti di sicurezza e sistemi di monitoraggio.
La centralità degli affiliati nella catena di attacco
Uno degli aspetti più rilevanti del caso è il riconoscimento esplicito del ruolo strategico degli affiliati. Senza di loro, il ransomware-as-a-service non può funzionare. Gli sviluppatori non entrano direttamente nelle reti delle vittime, riducendo la loro esposizione legale, mentre gli affiliati assumono il rischio operativo maggiore. L’affiliato ucraino ha ammesso di aver svolto attività di ricognizione prolungata, studiando l’architettura delle reti compromesse prima di procedere con l’attacco. Questo conferma che gli incidenti Nefilim non erano eventi improvvisati, ma operazioni pianificate con cura, spesso sviluppate nell’arco di settimane o mesi. La confessione rafforza inoltre l’idea che la distinzione tra “core team” e affiliati sia più organizzativa che etica. Entrambi i livelli condividono obiettivi, strumenti e benefici economici, contribuendo in modo diretto all’impatto devastante degli attacchi.
Il declino di Nefilim e l’eredità nel cybercrime
Nefilim ha cessato le proprie attività visibili nel 2021, in un periodo segnato da una forte pressione delle forze dell’ordine e da un aumento delle operazioni di contrasto internazionali. Tuttavia, il suo modello operativo non è scomparso. Al contrario, è stato ereditato e perfezionato da altre famiglie ransomware che dominano il panorama attuale. L’ammissione dell’affiliato ucraino arriva in un contesto in cui sempre più attori di medio livello vengono identificati e perseguiti, mentre i vertici delle organizzazioni criminali restano spesso nell’ombra. Questo spostamento dell’attenzione investigativa verso gli affiliati rappresenta una strategia chiave per indebolire l’ecosistema ransomware, colpendone la forza lavoro più esposta.
Il caso dimostra anche come le indagini stiano diventando sempre più efficaci nel ricostruire le responsabilità individuali, superando la narrativa secondo cui gli affiliati sarebbero figure marginali o facilmente sostituibili.
Implicazioni per la sicurezza e la prevenzione
Dal punto di vista difensivo, questa vicenda conferma un dato ormai consolidato: la maggior parte degli attacchi ransomware di successo non inizia con il malware, ma con errori di sicurezza di base, come credenziali deboli, servizi esposti e segmentazione di rete insufficiente. Il ruolo centrale degli affiliati rende evidente che la prevenzione deve concentrarsi sull’interruzione della kill chain nelle sue fasi iniziali. Rilevare accessi anomali, movimenti laterali e attività di esfiltrazione può fare la differenza tra un incidente contenuto e una compromissione totale. Allo stesso tempo, l’ammissione di colpa rafforza il messaggio deterrente verso altri affiliati attivi: il rischio legale non è teorico, ma concreto e crescente, soprattutto per chi opera in Paesi che collaborano con le autorità internazionali.
Un caso emblematico per comprendere il ransomware moderno
La confessione dell’hacker ucraino affiliato a Nefilim rappresenta un tassello fondamentale per comprendere la struttura industriale del ransomware contemporaneo. Non si tratta di singoli criminali isolati, ma di catene di produzione distribuite, in cui ogni ruolo è essenziale per il successo dell’operazione. Questo caso dimostra come il contrasto al ransomware non possa limitarsi a colpire il malware o i server di pagamento, ma debba puntare anche sulle persone che materialmente conducono gli attacchi. È in questo spazio, tra competenze tecniche e responsabilità penale, che si gioca una parte cruciale della battaglia contro il cybercrime organizzato.