C’è una scena che vale più di mille analisi: milioni di persone che, invece di aspettare il prime time, aprono YouTube e guardano una puntata come fosse un evento nazionale. Non su un canale italiano, non dentro un palinsesto, non dentro le regole tacite con cui la televisione ha imparato a proteggere se stessa. Su una piattaforma straniera, con una logica che non prevede “rientri”, né corridoi di compensazione, né telefonate risolutive.
In quella scena c’è già tutta la storia: il potere che si sposta, la narrazione che si spezza, la vecchia mediazione che non funziona più.
Il punto non è celebrare o demonizzare Fabrizio Corona, né assolvere un format perché “fa numeri”. Il punto è capire perché un prodotto percepito come gossip stia producendo l’effetto che per definizione appartiene all’inchiesta: costringere un sistema a guardarsi allo specchio, lasciando emergere crepe che prima venivano coperte con una mano di trucco. Ed è qui che la questione diventa scomoda, perché trascina dentro parole pesanti: ricatti, manipolazioni, pressioni, presunte vittime, e una domanda che l’Italia rimanda da anni come un pacco fragile:
che cosa succede quando l’informazione “legittima” decide di non vedere, e a raccontare la storia resta chi non è invitato ai tavoli?
Il caso, così com’è percepito dal pubblico e così come viene raccontato nei corridoi della reputazione, contiene un paradosso. Da un lato, ci sono accuse gravi che chiamano in causa comportamenti potenzialmente criminali e dinamiche di abuso. Dall’altro, c’è un riflesso collettivo che tende a ridurre tutto a spettacolo, a regolamento di conti, a strategia promozionale. In mezzo, la parte più inquietante: la sensazione che, anche quando il tema è esplosivo, il circuito mediatico tradizionale preferisca cambiare argomento, minimizzare, spostare l’attenzione su dettagli periferici. Come se la priorità non fosse la verifica dei fatti, ma la gestione del danno.
Se si vuole raccontare questa storia, bisogna partire da qui:
dal modo in cui un sistema seleziona ciò che è dicibile e ciò che non lo è, ciò che è pubblicabile e ciò che è “troppo complicato”, ciò che merita un titolo e ciò che viene lasciato marcire nei sussurri.
Cosa leggere
Il caso che nessuno vuole nominare
A ogni grande scandalo corrisponde una tentazione: trasformarlo in allegoria, ridurlo a metafora, farne un racconto di costume. È un meccanismo di autodifesa: se lo scandalo diventa intrattenimento, non produce conseguenze. Se diventa gossip, non diventa inchiesta. Eppure, dentro questa vicenda, la parte che brucia non è la componente sessuale, né la curiosità pruriginosa che alimenta il mercato dell’attenzione. Quello che brucia è la questione del potere: chi decide, chi copre, chi espone, chi paga, chi viene sacrificato per salvare l’immagine di un’industria.
Quando emergono accuse legate a pressioni psicologiche e ricatti, l’istinto dovrebbe essere uno solo: verificare, ricostruire, separare i fatti dalle suggestioni. Ma qui interviene un’altra variabile, che spesso in Italia pesa più della ricerca della verità: l’appartenenza al sistema. Il sistema non è soltanto una rete di relazioni; è un mercato. Dentro quel mercato ci sono contratti, partecipazioni, sinergie, convenienze. E c’è soprattutto una regola non scritta:
non si mette in crisi il meccanismo che permette a tutti di stare a galla.
In questo senso, l’eventuale “sparizione” del tema dai grandi spazi non è una dimenticanza. È un sintomo. Un segnale di ciò che accade quando un racconto minaccia di diventare un precedente, e un precedente minaccia di diventare un contagio.
Quando l’inchiesta nasce dal fango
C’è un pregiudizio culturale che rende l’Italia particolarmente vulnerabile: l’idea che il giornalismo d’inchiesta sia un’etichetta di qualità che si ottiene per certificazione sociale. Se sei “dentro”, se hai il timbro giusto, se frequenti i salotti, allora l’inchiesta è nobile. Se sei “fuori”, se hai un passato controverso, se sei stato raccontato come un reietto, allora qualunque rivelazione che porti viene interpretata come vendetta o strategia.
Questo pregiudizio è comodo, perché evita di affrontare la sostanza. Permette di liquidare tutto con una frase: lo fa per interesse, lo fa per soldi, lo fa per abbonamenti, lo fa per una produzione. Anche ammesso che ci sia un interesse economico, l’interesse economico non cancella automaticamente la possibilità che i fatti raccontati siano veri. E soprattutto non giustifica l’inerzia di chi dovrebbe verificare, perché un sistema sano non risponde alle rivelazioni chiedendosi “chi ci guadagna”, ma chiedendosi che cosa è accaduto.
Qui la questione diventa ancora più spigolosa: si può ammettere che un prodotto sia pensato anche per monetizzare, e allo stesso tempo riconoscere che sta esercitando una funzione che altri hanno smesso di svolgere. È un cortocircuito morale che il dibattito italiano detesta, perché costringe a separare il giudizio sulla persona dal giudizio sui contenuti. E separare è faticoso; richiede lavoro. Molto più semplice, invece, è etichettare e archiviare.
Perquisizioni, tribunali e l’arte di muoversi nella legge
L’elemento che destabilizza davvero l’ordine costituito non è la voce alta, né l’eccesso comunicativo. È la competenza. Quando chi racconta una storia dimostra di conoscere i confini legali, di muoversi dentro i margini che la stessa magistratura ha spesso usato contro di lui, produce un effetto inaspettato: capovolge la gerarchia. L’“impresentabile” non è più il bersaglio facile. Diventa un soggetto capace di tenere il punto, di resistere, di non farsi zittire con la sola pressione simbolica.
In Italia, il potere ama i bersagli prevedibili. Ama chi si scusa, chi arretra, chi si consegna al rituale del pentimento mediatico. Quando qualcuno non lo fa, e soprattutto quando qualcuno non lo fa portando documenti, ricostruzioni, connessioni, allora la reazione cambia.
Non si discute più il merito, si discute la legittimità del narratore. Si ripete la stessa formula: “non è giornalismo”. Ma quella formula, più la si usa, più rivela la sua funzione: difendere un recinto.
Il recinto è quello dell’informazione addomesticata, quella che può permettersi l’inchiesta solo a piccole dosi, “a sprazzi”, senza mai rendere davvero scomodo il potere. Il recinto è quello in cui l’inchiesta deve essere compatibile con il business, con l’accesso, con l’invito. Quando un racconto esce dal recinto, diventa pericoloso non perché è perfetto, ma perché dimostra che il recinto non è inevitabile.
La redazione che non esiste e il formato che fa paura
Un altro punto centrale di questa vicenda è la natura del prodotto. Non è soltanto un video. È un format che si comporta come una redazione “d’altri tempi” nel senso più brutale del termine: insiste, rincorre, pubblica, non chiede permesso. E soprattutto usa la rete non come vetrina, ma come moltiplicatore. La rete non è neutra, ma ha una caratteristica che la televisione teme: la circolazione laterale. Una storia può rimbalzare senza passare dal filtro dei grandi editori.
Il paradosso è che, mentre per anni la televisione ha raccontato la rete come un luogo di spazzatura, adesso si trova di fronte a un contenuto che, proprio perché nasce in rete, riesce a scardinare il muro. E lo fa con un’arma che la tv considerava sua: la capacità di costruire un evento. Ma stavolta l’evento non è “concesso”. È auto-generato. È il pubblico a deciderlo, non il palinsesto.
È qui che si vede la natura della guerra tra nuovi e vecchi media. Non è soltanto una guerra di visualizzazioni. È una guerra di grammatica:
chi detta le regole del racconto, chi stabilisce che cosa merita attenzione, chi decide il ritmo, chi controlla la reputazione. Quando questa grammatica viene riscritta fuori dai canali tradizionali, non basta più la reazione classica: ignorare. Perché ignorare, nel mondo delle piattaforme, non spegne. A volte amplifica.
Il silenzio degli editori e la paura di perdere il posto
Il silenzio non è mai vuoto. In Italia, spesso, è pieno di telefonate che non si fanno, di editoriali che non si scrivono, di servizi che si rimandano “a dopo”, di scelte che vengono giustificate con parole eleganti. Dietro c’è quasi sempre la stessa paura: rompere un equilibrio. Perché l’equilibrio porta pubblicità, accesso, inviti, relazioni. Romperlo significa rischiare di restare fuori.
Questa vicenda mette a nudo una dinamica più ampia: il modo in cui la credibilità dell’informazione viene erosa non soltanto dalle fake news, e dalla presunta lotta che si prefigge di fare, ma dalla percezione che la verità sia subordinata alla convenienza. Quando una storia appare gigantesca e l’informazione tradizionale la tratta come marginale, il pubblico costruisce una conclusione semplice: qualcuno protegge qualcuno. Anche se questa conclusione può essere sbagliata, diventa un fatto sociale. E i fatti sociali, in un’epoca di piattaforme, valgono quanto i fatti documentali, perché determinano fiducia, rabbia, polarizzazione.
Qui sta il rischio: non tanto che un singolo format vinca contro la televisione, ma che una quota crescente di pubblico smetta di credere alla mediazione classica. E quando la mediazione muore, lo spazio viene occupato da tutto: dal meglio e dal peggio. Se l’informazione legittima abdica, non sceglie un’alternativa migliore; consegna il campo al caos ed in questo caso sta avallando una serie di presunti stupri seriali.
La guerra agli influencer e il mercato del consenso
Per capire perché questa storia sia diventata un detonatore, bisogna ricordare un passaggio precedente sollevato da Matrice Digitale prima che scoppiasse lo scandalo Ferragni, i primi a denunciarlo in Italia, che si portava appresso una coda di starlette che patinava le menti dei giovani pronte poi a pagare il prezzo del successo per essere come loro: la lunga stagione in cui l’Italia ha trasformato gli influencer in un potere parallelo, spesso senza contraddittorio, spesso senza vera cultura critica. Mentre l’attenzione veniva sequestrata da dettagli irrilevanti, un’intera generazione veniva educata dentro una grammatica emotiva fatta di coppie confezionate, narrazioni prefabbricate, visibilità come misura del valore.
Non è un moralismo. È un fatto industriale. Il gossip non è solo intrattenimento; è un dispositivo economico. Produce audience, crea personaggi, vende spazi pubblicitari, influenza comportamenti. In quella macchina, la televisione e il digitale hanno spesso collaborato: si sono alimentati a vicenda. La tv certificava, la rete amplificava. E chi provava a denunciare la povertà di quel sistema veniva accusato di snobismo o di invidia.
Quando un format “sporco” decide di attaccare quel dispositivo dall’interno, succede qualcosa di inatteso. Il gossip, invece di essere carburante per la macchina, diventa acido corrosivo. E allora l’industria si scopre vulnerabile, perché non possiede più l’esclusiva sul racconto di se stessa.
Il pubblico giovane cresciuto nel gossip e la fabbrica delle coppie
C’è una frase che torna come un eco nella percezione collettiva: la generazione social cresciuta con notizie spazzatura. È un’espressione dura, ma descrive un meccanismo reale: l’educazione all’attenzione. Se l’attenzione viene allenata solo sul leggero, sul superficiale, sul ripetitivo, diventa difficile riconoscere il valore del complesso. E quando il complesso arriva, viene rifiutato o trasformato in meme.
Qui la storia si complica, perché mostra un effetto collaterale:
quando un contenuto “di rottura” usa il linguaggio del gossip per insinuare una critica più profonda, riesce a parlare a quella stessa platea che la cultura tradizionale ha smesso di raggiungere. È come se dicesse: vi hanno allevato con questo, e con questo adesso vi mostro che cosa c’è dietro.
Il problema, però, è che questo passaggio non è indolore. Perché usare il linguaggio del gossip significa anche rischiare di far deragliare il discorso, di trasformare accuse gravi in spettacolo. Il confine tra denuncia e intrattenimento è sottile. E proprio per questo, in una società sana, il lavoro di verifica e di contestualizzazione dovrebbe essere svolto da chi ha strumenti, redazioni, tempo. Quando quel lavoro manca, la storia resta sospesa tra verità e narrazione, e la fiducia si consuma.
Nuovi media contro vecchi media: la qualità come arma
Per anni la televisione ha raccontato il digitale come un universo privo di qualità e notizie false. Poi è arrivato il digitale a produrre qualità, e la televisione ha reagito come spesso reagiscono i poteri: ha provato a negare l’evidenza, oppure a inglobarla quando era possibile. Ma ci sono contenuti che non si lasciano inglobare, perché il loro valore sta proprio nell’essere esterni, non mediati, non addomesticati.
Qui la competizione non è soltanto tra piattaforme. È tra due idee di pubblico. La televisione tradizionale vede il pubblico come massa da trattenere, da gestire, da accompagnare verso la pubblicità. Le piattaforme vedono il pubblico come comunità segmentata, capace di scegliere, di abbandonare, di migrare.
Quando milioni di persone migrano per un contenuto, il potere del palinsesto si sgonfia. E con lui si sgonfia anche l’autorità simbolica di chi, per decenni, ha potuto dire: “questa storia conta, questa no”.
In questo senso, la puntata vista su YouTube diventa un fatto politico-culturale, prima ancora che mediatico. Dimostra che il pubblico non è più legato alla televisione per abitudine. È legato alla percezione di autenticità. E l’autenticità, nella fase storica attuale, vale più della reputazione.
Mediaset, immagine europea e rischio di scalata
C’è un altro livello, più alto e più oscuro, che questa vicenda sfiora: il rapporto tra grandi gruppi mediatici e finanza. Quando si parla di espansioni, acquisizioni, capitalizzazioni, l’informazione non è più solo un prodotto; è un asset.
E un asset si protegge. Si protegge anche dalla corrosione reputazionale.
In questo quadro, qualunque racconto che colpisca un centro di potere mediatico non è mai soltanto “cronaca di costume”. Diventa una variabile che può influenzare percezioni, investimenti, strategie. Se un gruppo vuole rafforzare la propria immagine, costruire un profilo “europeo”, resistere o dialogare con la finanza globale, allora la stabilità narrativa è fondamentale. Ogni scandalo è una crepa. Ogni crepa può diventare un varco.
Non serve immaginare complotti per riconoscere che gli interessi sono enormi. Basta guardare come si muovono i grandi gruppi in Europa: la credibilità è capitale. E il capitale non ama l’imprevedibilità. Per questo, le storie che mettono in crisi la narrazione tendono a essere neutralizzate. Se non si può negarle, si può delegittimarle. Se non si può delegittimarle, si può saturare lo spazio con altro. È un vecchio trucco:
quando non puoi spegnere un incendio, alza il volume della musica oppure fai finta che non esiste.
Il potere dell’attenzione e l’economia della vergogna
La parte più inquietante di questa vicenda non riguarda solo chi è accusato o chi accusa. Riguarda il pubblico. Perché il pubblico non è più un soggetto passivo. È un acceleratore. Quando una storia si diffonde, può produrre pressione reale, può influenzare scelte, può cambiare carriere. Ma può anche trasformarsi in linciaggio, in semplificazione, in tribunale emotivo.
È qui che l’inchiesta deve essere spietata con se stessa: riconoscere che la verità non coincide con la viralità. Eppure, riconoscere anche l’altra metà del problema: in un ecosistema in cui la credibilità dell’informazione è erosa, la viralità diventa l’unico strumento percepito come efficace per rompere i muri. È una spirale: più i media tradizionali appaiono timidi, più il pubblico premia la rottura. Più il pubblico premia la rottura, più la rottura tende a estremizzarsi per restare visibile.
Questa spirale alimenta un’economia della vergogna: contenuti che funzionano perché mostrano il lato oscuro, perché espongono, perché smontano l’immagine. A volte lo fanno con merito, a volte con eccesso, a volte con approssimazione. Ma la domanda resta:
chi ha creato le condizioni perché questo diventasse inevitabile? Chi ha trasformato la televisione, un tempo percepita come autorità, in un luogo in cui la verità sembra sempre negoziabile?
Perché l’Italia fatica a riconoscere il giornalismo scomodo
Il giornalismo d’inchiesta, in Italia, viene spesso celebrato a posteriori e ostacolato in tempo reale. Si elogiano i “cani da guardia” quando hanno già vinto, quando il rischio è passato, quando il potere ha già cambiato pelle. Ma quando l’inchiesta è viva, quando morde, quando disturba, allora scatta l’istinto di difesa: isolare, ridicolizzare, delegittimare.
In questa vicenda, la delegittimazione prende una forma precisa: ridurre tutto a marketing. Dire che è solo un’operazione per guadagnare abbonamenti, per vendere un prodotto, per preparare un’uscita. Può essere una componente, ma non può essere l’unica chiave. Perché se lo fosse, basterebbe dimostrarlo con una contro-inchiesta, con una verifica, con un lavoro serio. E invece spesso non accade. Si preferisce la battuta, l’occhiolino, la smorfia. È il modo più rapido per evitare il merito.
Il risultato è devastante: un pubblico che vede un’inchiesta dove l’informazione vede fumo, e un’informazione che vede fumo dove il pubblico percepisce fuoco. In mezzo, la fiducia che evapora.
La domanda che resta quando la televisione migra su YouTube
La scena iniziale torna come una condanna: milioni di persone davanti a uno schermo, ma non quello che per decenni ha governato le opinioni. Non la televisione come istituzione nazionale. Una piattaforma. Un luogo dove la sovranità editoriale è fragile, dove le regole sono di un altro paese, dove un contenuto può essere rimosso o promosso da logiche opache, dove gli editori italiani non dettano il ritmo.
Eppure, proprio lì, quella storia ha trovato la sua platea più ampia. È una sconfitta per chi pensava di poter controllare l’agenda solo con i palinsesti e le relazioni. È un errore strategico per chi credeva che bastasse convocare la piattaforma “dal punto di vista degli editori” per rimettere le cose a posto. Perché la partita, nel frattempo, si è spostata altrove: nella capacità di costruire fiducia, di offrire contenuti percepiti come veri, di reggere l’urto delle conseguenze.
La domanda finale non riguarda un singolo personaggio. Riguarda un sistema.
Vogliamo vivere in un paese in cui le storie scomode esistono solo se diventano virali?
Vogliamo che l’inchiesta sia delegata a chi sta fuori dai circuiti, mentre chi sta dentro si limita a commentare?
Vogliamo che l’informazione resti prigioniera della sua autoreferenzialità, del suo bisogno di essere accettata, del suo riflesso di trasformare la verità in narrazione?
Perché è qui che il caso diventa una cartina di tornasole. Non è “solo gossip”. È la dimostrazione che la credibilità è diventata un campo di battaglia. E che, quando la credibilità crolla, il pubblico non aspetta. Migra. Sceglie. E, nel farlo, decide chi resta in piedi e chi viene lasciato indietro.