Editoriali
Anonymous copre la fuffa occidentale nella Guerra Cibernetica
Quando sento parlare di Anonymous impegnato nella guerra sorrido. Anonymous l’ho conosciuta direttamente nel 2017 circa e non erano a favore dell’imperialismo statunitense, anzi, secondo molti, la componente russa al suo interno era molto influente e determinante nelle operazioni contro obiettivi USA.
Aspetto da non sottovalutare è che in questi anni con Anonymous abbiamo seguito delle attività di segnalazione di contenuti pedofili in rete. Dai social ai siti accessibili da chiunque e posso assicurare che non c’era questo entusiasmo, soprattutto da parte delle piattaforme che impiegavano giorni a volte per rimuovere tali oscenità.
Poi c’è l’attivismo svolto per sensibilizzare i conflitti di Yemen, Myammar, Palestina: ignorati dal punto di vista internazionale.
Nel mentre gli attivisti di mezzo mondo hanno speso tempo e danaro in favore delle minoranze, Anonymous è emerso in un’altra veste con ampio risalto quando è scoppiata la rivolta del Black Lives Matter in USA, prendendo le parti non solo della popolazione afrodiscendente, ma anche del Partito Democratico statunitense impegnato nella campagna elettorale. In quella occasione, il collettivo ha anche diffuso un documento giudiziario non corrispondente al vero, dando per certo l’interessamento di Trump nella vicenda del pedofilo Eipstein, che invece sappiamo essere stato amico di Clinton, Andrea e molti altri vicini alla sfera dei democratici.
Altro aspetto interessante è la discesa in campo nella guerra informatica parallela al conflitto Ucraino dove le operazioni di Anonymous appassionano tutti, ma udite udite è fuffa. Innanzitutto sono tante le sigle che sfruttano la maschera del collettivo per sferrare attacchi nonostante siano state ampiamente classificate dagli esperti ed i danni provocati da Anonymous ad oggi sono finalizzati alla propaganda che comprende azioni di esfiltrazione di dati, cosa già vista e rivista, oppure il rendere indisponibili i siti internet, addirittura 2000, della Russia e del suo governo.
Ovviamente chi legge questi numeri e non comprende la materia, può eccitarsi, ma vi faccio una domanda:
Secondo voi è meglio buttare giù un sito, esfiltrandone i dati, che vanno poi tradotti per capirne la sensibilità, oppure creare un file che se installato nel pc o in una rete distrugge tutti i dati?
Bene, ad oggi, la Russia conta 5 file di questo tipo, denominati Wiper, che sono stati impiegati in guerra perchè hanno colpito determinati dati rendendo inoperabili molti servizi informatici. L’unico malware ucraino capace di fare le stesse cose è stato già svelato in fase di programmazione. Inoltre, con la scusa dei siti internet buttati giù, la Russia ha attuato il progetto di RuNet che “cinturifica” la rete Internet del paese in danno alla popolazione perché crea un Internet sullo stesso livello di quello globale, ma separato in una WAN differente. Vero, le attività di comunicazione, i tentativi fatti e riusciti con successo nel sabotare i palinsesti televisivi del Cremlino hanno avuto un effetto positivo, ma su cosa?
Su attività di propaganda che non hanno scalfito l’opinione russa, a cui si aggiunge un’altra considerazione, come fa Anonymous a disporre di una capacità di banda così importante per sferrare attacchi DDOS? Qui è il nocciolo della questione e la risposta è molto semplice:
non avrebbe potuto senza l’appoggio di agenzie governative.
Considerando l’appartenenza di Biden all’intelligence americana, chi si è opposto a Trump nell’ultima campagna elettorale, non si esclude una partecipazione della CIA nel meccanismo degli Hacktivisti più famosi del mondo e, nonostante questo, si è ancora in attesa dei risvolti dei terabytes di dati messi in circolazione dal collettivo alla faccia dei danni che hanno messo in difficoltà mezzo mondo occidentale causati dalla Russia prima e durante il conflitto a tal punto da mettere in allerta l’occidente da rischi russi incombenti.
Editoriali
Ferragni pagliaccio: l’indignazione della rete alla prima dell’Espresso
Tempo di lettura: 2 minuti. La copertina de L’Espresso su Chiara Ferragni vestita da pagliaccio ha scatenato diverse reazioni, ma chi ha letto l’inchiesta?
Chiara Ferragni compare truccata da pagliaccio in prima pagina de L’Espresso che ne descrive la scarsa trasparenza nella gestione societaria e si fa riferimento a scatole cinesi, manager indagati e dipendenti pagati poco.
Tutto legale fino ad oggi, sia chiaro, ma se questo è il modello di Business da studiare ad Harvard, si può ampiamente pensare che negli USA siano arrivati tardi. Ritornando con i piedi per terra e conscendo molte realtà statunitensi, sarebbe da stupidi mettere Chiara Ferragni al primo posto di come si gestisce un’azienda: non è la prima e nemmeno l’ultima.
Matrice Digitale è la testata che ha denunciato per prima l’affaire di Sanremo, che ha giudicato la Ferragni per quello che si è mostrata da Fazio: un’utile manichino senz’anima al servizio delle case di moda.
Non solo lo scandalo nella gestione della beneficenza, ma la delusione nelle risposte in una trasmissione accondiscendente come quella di Fazio stanno facendo cadere definitivamente l’alone di divinità di colei che ha saputo nascondersi dietro di post su delle pagine social creandosi un’icona immacolata.
Le reazioni alla copertina dell’Espresso
La copertina de L’Espresso è l’ultimo attacco a quel pezzo di credibilità rimasto alla Ferragni: la donna imprenditrice che vince perchè ha racimolato soldi. In pochi hanno letto le notizie diffuse sui media un pò di anni fa che vedevano il brand Ferragni essere messo in vendita sul mercato anche per una esposizione finanziaria dovuta da una situazione debitoria sulla carta di piccolo conto. Se però le cose stanno come dice L’Espresso, la realtà sullo stato di salute delle sue società potrebbe essere diversa.
Riflessioni alle reazioni
Molti hanno reagito alla copertina della Ferragni con stupore ed indignazione, ma fa riflettere in realtà il fatto che nessuno abbia letto l’articolo e soprattutto tutti, dinanzi ad una persona che si presenta in un modo e dimostra di essere diverso da come viene descritto, lo apostroferebbero come un pagliaccio.
E fa male essere presi per i fondelli da un pagliaccio … questo nessuno ha il coraggio di ammetterlo.
Editoriali
Solo ora si accorgono del problema televoto e giornalismo musicale
Leggo molte critiche al “cartello di giornalisti” che ha boicottato la vittoria di Geolier a Sanremo. Sono davvero convinto che sia andata così, ma sono certo della tanta “colleganza” che oggi predica bene, ma ha sempre razzolato male per quel che concerne il discorso di “cartello”.
E non riguarda solo la musica, ma anche il calcio, la politica … quindi di cosa parliamo?
Qualche settimana fa fui molto chiaro: chi tratta moda, spettacolo, musica e gossip non si può considerare giornalista.
Chi lo fa dal punto di vista della critica diversamente lo è e vi assicuro che assistiamo a tanti giornalisti sportivi, che hanno visto milioni di partite, e non capiscono di calcio. Vediamo chi dei nostri farà un esposto all’Ordine per quel collega che ha commentato di non far votare la Campania.
Altra cosa: il 90% dei giornalisti che la criticano, non avrebbe avuto il coraggio di fare quell’indegna domanda, ma fondata, a Geolier sul risultato ottenuto “più per i suoi ospiti che per la sua performance”.
Così come hanno fatto più danni dei ladri di polli sanremesi quelli che hanno applaudito Presidenti del Consiglio e Ministri della Sanità nefasti.
Editoriali
Geolier a Sanremo rutta in napoletano. Perchè è un problema per i nativi digitali
Parliamoci chiaramente, questo qui, Geolier, è diventato famoso per una canzone che descrive il livello di tamarraggine napoletana che si manifesta “rint a n’audi nera opaca” dove magari ci si sballa pure.
Nello stesso brano cita tutte marche di lusso … che rappresentano quello stile di vita a cui ambiscono le baby gang che ieri hanno occupato la prima del tg5 nonostante a Napoli siamo in un periodo d’oro rispetto al resto del paese.
Amadeus quest’anno farà come la De Filippi, punta sul lato più becero della napoletanità fatto di lusso a debito che poi si sposa con il mondo degli influencer e della moda. Conferma anche di sapersi nascondere bene dietro l’equazione “è seguito, quindi può anche essere pericoloso e di scarsa qualità, ma è forte“
Che poi è il modello che i genitori evitano di caldeggiare per i propri figli, ma puntualmente vengono smentiti da social e tv. E la risposta è “il ragazzo fa numeri”.
Tra l’altro, il monologo in napoletano dell’anno scorso al festival ha anticipato la sua presenza ed era davvero pessimo, tanto da farmi prendere le distanze da un mio compaesano.
Questa non è Napoli e soprattutto non è l’evoluzione della napoletanità da tramandare alle nuove generazioni.
Perchè qui non si discute Geolier l’artista, che merita di fare il suo percorso e di vincere Sanremo, ma di Geolier che parla a nome dei napoletani. Ognuno si sceglie gli ambasciatori che merita, di certo non è una casa di moda o un affarista come Amadeus che decidono chi debba rappresentare un’intera città.
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