Editoriali
La patente sociale dell’Emilia Romagna: uno strumento ottimo, ma speriamo non venga gestito alla “Facebook”
In questi giorni di guerra ha destato scalpore l’iniziativa del comune di Fidenza dell’istituire una patente sociale per i cittadini virtuosi a cui si è aggiunto anche l’interesse di altri comuni. Non è un caso che la patente sociale subentri ad un periodo appena trascorso nel quale c’è stato un “semaforo” sociale: il Greenpass. Uno strumento anche questo politico, come hanno ammesso tutte le parti coinvolte in causa, ma anche un precursore e nuovo parente della già sperimentata patente a punti che ha rallentato la marcia di molte auto in autostrada e nelle extraurbane.
La patente sociale è essenzialmente una card, fisica e virtuale, dove il cittadino parte da una base di partenza. Più virtuoso è e più guadagna punti, più punti guadagna più ha diritto a dei benefit e, nel caso di Fidenza, sicuramente è conosciuto: il diritto alla casa.
“Più curi il tuo immobile comunale, più paghi regolarmente e più punti prendi”. Chi invece non lo fa? Non è degno di vivere in un alloggio comunale.
Detto così suona bene per il classico spot all’italiana dove le persone amano dividersi tra giustizialisti ed antifascisti “anomali”, così definiti perché quelli veri sono quasi sempre a favore di queste iniziative nazionalpopolari e lo notiamo dal padrino dell’iniziativa: il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini che aspira ad essere il leader nazionale del Partito Democratico e per forza di cose deve dare l’esempio della società modello del futuro, che richiede una trasformazione in questo presente fatto di crisi del lavoro e geopolitiche.
La società della sorveglianza composta dal monitoraggio costante delle nostre vite, adesso si sposta a quella del controllo dove vige la missione “ti sorveglio, ma posso anche decidere la tua vita in modo arbitrario“.
No, quanto virgolettato non è una forzatura, ma come si è detto è un punto positivo su cui si può essere d’accordo anche visto che il cittadino onesto è quello che non ha difficoltà nel rispettare le regole ed essere ligio agli ordini del quieto vivere.
Il problema reale, però, risiede nel metodo e nel contesto perché un precedente di credito sociale c’è in Cina ed online. Il modello cinese, oltre ad avere un sistema di sorveglianza all’avanguardia tanto da avergli noi italiani affidato le telecamere delle strutture governative, comprese quelle dell’intelligence dove il regime non tollera per esempio la libertà di espressione e di manifestare, ne consegue che le persone se aprono bocca vengono penalizzate e “bullizzate” quando si trovano nei luoghi affollati ed i monitor di strada avvisano la gente lì presente della presenza di persone “indegne” perché prive di crediti sociali.
Ci sarà modo di appellarsi alle decisioni? Oppure sceglieranno il modello Facebook?
Ecco, questo è un altro problema su cui vale la pena riflettere: una persona accusata di compiere reati ed è innocente, come si colloca in questo schema?
Gli vengono tolti i punti oppure ha modo di appellarsi? E in che modo?
Facebook, che ha dichiarato in questi mesi di avere lo scopo di tutelare i reati di opinione in primis e già questo puzza di fascismo e di regole avverse alla piazza libera di Internet, quando una persona ha da ridire sulla decisione, cosa succede?
Questo è possibile già spiegarlo. Innanzitutto Facebook commina delle penalità singole o congiunte come l’impossibilità di postare, di pubblicare nei gruppi e quella peggiore, soprattutto quando lo fa verso un professionista dell’informazione o una persona coinvolta socialmente, di togliere la visibilità per diversi mesi ai post dell’utente.
Se ci si appella, non si ha la certezza che il ricorso venga osservato da una persona manualmente e se pure forse non c’è possibilità di riscrivere manualmente delle memorie difensive, come fa Google, mancando di rispetto all’utente. In poche parole, i ricorsi vengono sempre respinti e viene fornita una ulteriore opportunità come quella di rivolgersi ad un comitato indipendente che però “esamina casi campione una tantum“, ci fanno sapere dal social che si prefigge di essere i social modello di democrazia.
L’aspetto rischioso è proprio questo: il contesto ibrido. Una tecnologia del genere dovrebbe abolire l’arbitrio umano per funzionare meglio ed impiegarlo solo nei casi estremi per certificare le gravi sanzioni comminate delle “macchine” ed il fattore patente a punti lo dovrebbe insegnare. Un tutor scatta la foto, l’agente l’approva, e arriva in automatico la multa a casa o sul cassetto fiscale.
Interrogativi che lasciano spazio a delle decisioni apparentemente superficiali e che rispondono al comando “bisogna partire e poi si aggiustano le cose“: concetto corretto se non fosse che in ballo ci sia la dignità sociale delle persone ed i diritti basilari. Un altro aspetto fondamentale è quello del valutare l’affidamento del trattamento dati al pubblico o al privato con tutta la discussione che ne deriverebbe, come già avvenuto nel caso di Immuni. Oltre a questo, è innegabile la pericolosità per la democrazia l’iniziare a mettere in piedi un progetto di questa portata per poi modificarlo ed il greenpass lo ha dimostrato.
Da semaforo vaccinale a semaforo sociale che ha limitato alcuni diritti fondamentali e non per questioni sanitarie, ma politiche visti gli effetti e la stessa ammissione della componente politica dirigenziale del Bel Paese.
In conclusione, l’idea dell’istituzione del credito sociale può essere utile, ma in periodi così incerti di guerra rappresenta un rischio concreto per l’attuazione di un sistema “provvisorio” fallace sotto molti punti di vista e che possa stabilizzarsi con evidenti rischi per il funzionamento democratico del Paese.
Editoriali
Ferragni pagliaccio: l’indignazione della rete alla prima dell’Espresso
Tempo di lettura: 2 minuti. La copertina de L’Espresso su Chiara Ferragni vestita da pagliaccio ha scatenato diverse reazioni, ma chi ha letto l’inchiesta?
Chiara Ferragni compare truccata da pagliaccio in prima pagina de L’Espresso che ne descrive la scarsa trasparenza nella gestione societaria e si fa riferimento a scatole cinesi, manager indagati e dipendenti pagati poco.
Tutto legale fino ad oggi, sia chiaro, ma se questo è il modello di Business da studiare ad Harvard, si può ampiamente pensare che negli USA siano arrivati tardi. Ritornando con i piedi per terra e conscendo molte realtà statunitensi, sarebbe da stupidi mettere Chiara Ferragni al primo posto di come si gestisce un’azienda: non è la prima e nemmeno l’ultima.
Matrice Digitale è la testata che ha denunciato per prima l’affaire di Sanremo, che ha giudicato la Ferragni per quello che si è mostrata da Fazio: un’utile manichino senz’anima al servizio delle case di moda.
Non solo lo scandalo nella gestione della beneficenza, ma la delusione nelle risposte in una trasmissione accondiscendente come quella di Fazio stanno facendo cadere definitivamente l’alone di divinità di colei che ha saputo nascondersi dietro di post su delle pagine social creandosi un’icona immacolata.
Le reazioni alla copertina dell’Espresso
La copertina de L’Espresso è l’ultimo attacco a quel pezzo di credibilità rimasto alla Ferragni: la donna imprenditrice che vince perchè ha racimolato soldi. In pochi hanno letto le notizie diffuse sui media un pò di anni fa che vedevano il brand Ferragni essere messo in vendita sul mercato anche per una esposizione finanziaria dovuta da una situazione debitoria sulla carta di piccolo conto. Se però le cose stanno come dice L’Espresso, la realtà sullo stato di salute delle sue società potrebbe essere diversa.
Riflessioni alle reazioni
Molti hanno reagito alla copertina della Ferragni con stupore ed indignazione, ma fa riflettere in realtà il fatto che nessuno abbia letto l’articolo e soprattutto tutti, dinanzi ad una persona che si presenta in un modo e dimostra di essere diverso da come viene descritto, lo apostroferebbero come un pagliaccio.
E fa male essere presi per i fondelli da un pagliaccio … questo nessuno ha il coraggio di ammetterlo.
Editoriali
Solo ora si accorgono del problema televoto e giornalismo musicale
Leggo molte critiche al “cartello di giornalisti” che ha boicottato la vittoria di Geolier a Sanremo. Sono davvero convinto che sia andata così, ma sono certo della tanta “colleganza” che oggi predica bene, ma ha sempre razzolato male per quel che concerne il discorso di “cartello”.
E non riguarda solo la musica, ma anche il calcio, la politica … quindi di cosa parliamo?
Qualche settimana fa fui molto chiaro: chi tratta moda, spettacolo, musica e gossip non si può considerare giornalista.
Chi lo fa dal punto di vista della critica diversamente lo è e vi assicuro che assistiamo a tanti giornalisti sportivi, che hanno visto milioni di partite, e non capiscono di calcio. Vediamo chi dei nostri farà un esposto all’Ordine per quel collega che ha commentato di non far votare la Campania.
Altra cosa: il 90% dei giornalisti che la criticano, non avrebbe avuto il coraggio di fare quell’indegna domanda, ma fondata, a Geolier sul risultato ottenuto “più per i suoi ospiti che per la sua performance”.
Così come hanno fatto più danni dei ladri di polli sanremesi quelli che hanno applaudito Presidenti del Consiglio e Ministri della Sanità nefasti.
Editoriali
Geolier a Sanremo rutta in napoletano. Perchè è un problema per i nativi digitali
Parliamoci chiaramente, questo qui, Geolier, è diventato famoso per una canzone che descrive il livello di tamarraggine napoletana che si manifesta “rint a n’audi nera opaca” dove magari ci si sballa pure.
Nello stesso brano cita tutte marche di lusso … che rappresentano quello stile di vita a cui ambiscono le baby gang che ieri hanno occupato la prima del tg5 nonostante a Napoli siamo in un periodo d’oro rispetto al resto del paese.
Amadeus quest’anno farà come la De Filippi, punta sul lato più becero della napoletanità fatto di lusso a debito che poi si sposa con il mondo degli influencer e della moda. Conferma anche di sapersi nascondere bene dietro l’equazione “è seguito, quindi può anche essere pericoloso e di scarsa qualità, ma è forte“
Che poi è il modello che i genitori evitano di caldeggiare per i propri figli, ma puntualmente vengono smentiti da social e tv. E la risposta è “il ragazzo fa numeri”.
Tra l’altro, il monologo in napoletano dell’anno scorso al festival ha anticipato la sua presenza ed era davvero pessimo, tanto da farmi prendere le distanze da un mio compaesano.
Questa non è Napoli e soprattutto non è l’evoluzione della napoletanità da tramandare alle nuove generazioni.
Perchè qui non si discute Geolier l’artista, che merita di fare il suo percorso e di vincere Sanremo, ma di Geolier che parla a nome dei napoletani. Ognuno si sceglie gli ambasciatori che merita, di certo non è una casa di moda o un affarista come Amadeus che decidono chi debba rappresentare un’intera città.
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