Editoriali
Ecco perchè il VAR non ha cambiato ancora il calcio
Il mondo del calcio è colpito da tante polemiche nonostante il Video Assistant Referee VAR. L’inserimento della tecnologia nel calcio non ha portato soluzioni, ma solo diatribe a quanto pare. Non c’è una squadra che non sollevi dubbi a riguardo, non tanto sulla tecnologia, ma sul suo utilizzo e sulle regole di impiego messe a punto dalla Lega sulla base delle direttive FIFA.
Prima di comprendere perché il VAR, o la VAR, non ha migliorato il calcio, spieghiamo quando questo può essere utilizzato dall’arbitro su sua indicazione spontanea oppure su richiesta della squadra interessata a fare chiarezza su un azione a suo dire torbida. Il Grande Fratello del calcio può essere usato esclusivamente in quattro casi definiti “determinanti” per lo sviluppo della partita e del risultato:
• assegnazione di un gol;
• assegnazione di un calcio di rigore;
• espulsione diretta (non quella per somma di ammonizioni, “giallo”);
• errore di identità (scambio del calciatore da ammonire o espellere con un altro)
Ed ecco allora che subentra il fattore del tempo. Quanto tempo dura una interruzione del VAR? Almeno 3 minuti, che si andrebbero ad aggiungere alla durata del match.
Chi assiste l’arbitro? Una macchina?
No altri due ufficiali di gara in carne ed ossa, detti V.A.R. (Video Assistant Referee) e A.V.A.R. (Assistant Video Assistant Referee), incaricati di riferire all’arbitro e di rivedere il filmato dell’azione quando si verifica una delle quattro situazioni già viste in precedenza.
Quindi questo sistema dovrebbe essere infallibile dato che ci sono due uomini a controllare le immagini di una moviola in campo, perché allora vi sono ancora lamentele?
Perché la macchina non è libera di decidere ed il mix arbitro-VAR non è automatizzato e nemmeno basato su principi universali, ma sulla discrezionalità umana ed è qui che subentra la cultura del sospetto italica fondata su eventuali decisioni personali aventi alibi tecnologici mirati a premiare l’una o l’altra squadra.
Come dovrebbe essere un sistema arbitrale calcistico a prova di errore?
Innanzitutto c’è bisogno di stabilire il principio che l’arbitro in carne ed ossa non serve perché la tecnologia oggi potrebbe provvedere autonomamente a giudicare le partite di calcio grazie all’intelligenza artificiale con capacità predittiva ed il machine learning accompagnato da un deep learning: una macchina che impara dalla casistica e che continua ad imparare mentre è inattiva.
Fantascienza? Assolutamente no e certamente rappresenterebbe una soluzione quasi perfetta, ma onerosa nella fase di avvio e con la tecnologia 5G sarebbe ancora più efficiente ed infallibile, ma subentrerebbe un fattore forse più fastidioso: le interruzioni di gioco con un conseguente aumento esponenziale del tempo di gioco.
Se ogni interruzione dura 3 minuti, si calcola che in una fase iniziale, magari di apprendimento dei sistemi informatici, ci troveremmo a fare i conti con più di 10 interruzioni a partita e la scelta sarebbe tra il far recuperare il tempo perso con la stessa quantità di minuti sottratti al gioco oppure facendo giocare meno le squadre in campo. C’è però un dato che descrive molte macchine in altri settori come perfette anche con percentuali dell’80% e le squadre potrebbero richiedere l’intervento dell’arbitro, unico supervisore senza una terna, per il rimanente 20%.
Vi sembra surreale vero? Ed invece è così tecnicamente praticabile ed onesto, perfetto, che il 20% di errore rappresenterebbe un successo proprio per coloro che sono alla ricerca di un calcio giusto, equilibrato ed onesto, ma che difficilmente si può ottenere per due motivi.
Il primo risiede nei costi che dovrebbero essere a capo di gestori dello stadio o delle Società Sportive titolari degli impianti, oppure a carico della FIFA che sarebbe chiamata ad una rivoluzione globale e forse anche coraggiosa sotto certi punti di vista, perché potrebbe aprire successivamente a scenari di giocatori “robot”. Il secondo motivo è semplicemente perché ad oggi i campionati sono falsati, tutti, e non sempre vince il migliore e l’algoritmo che sta modulando il gioco è spesso quello delle società di scommesse sempre più potenti, ricche e soprattutto influenti.
Pensandoci bene, una volta che la fiducia del pubblico e degli addetti ai lavori si è consolidata, le partite durerebbero meno perché la tecnologia funzionante, impiegata in maniera assoluta, non creerebbe molti sospetti e, a meno che non si verifichino casi eclatanti di errori oppure di intrusione informatica e si inizi a parlare di manipolazione dell’algoritmo che governa le macchine, vi sarebbe più tempo dedicato al gioco e meno alle polemiche perché impartite da uno strumento non umano. Il fatto che sia una macchina a dirigere tutto senza interessi personali, che potrebbero inficiare su un eventuale parametro di giudizio, così come ad oggi viene spesso contestata l’integrità morale degli arbitri umani. Anche perché il direttore di gara sarebbe unico per ogni partita, ed il sistema robotico prevederebbe più soggetti mossi da un unico algoritmo senza che il cuore e la mente prevalgano su delle scelte oggettive valide per tutti e soprattutto senza discrezionalità di merito, ma di regola.
Editoriali
Ferragni pagliaccio: l’indignazione della rete alla prima dell’Espresso
Tempo di lettura: 2 minuti. La copertina de L’Espresso su Chiara Ferragni vestita da pagliaccio ha scatenato diverse reazioni, ma chi ha letto l’inchiesta?
Chiara Ferragni compare truccata da pagliaccio in prima pagina de L’Espresso che ne descrive la scarsa trasparenza nella gestione societaria e si fa riferimento a scatole cinesi, manager indagati e dipendenti pagati poco.
Tutto legale fino ad oggi, sia chiaro, ma se questo è il modello di Business da studiare ad Harvard, si può ampiamente pensare che negli USA siano arrivati tardi. Ritornando con i piedi per terra e conscendo molte realtà statunitensi, sarebbe da stupidi mettere Chiara Ferragni al primo posto di come si gestisce un’azienda: non è la prima e nemmeno l’ultima.
Matrice Digitale è la testata che ha denunciato per prima l’affaire di Sanremo, che ha giudicato la Ferragni per quello che si è mostrata da Fazio: un’utile manichino senz’anima al servizio delle case di moda.
Non solo lo scandalo nella gestione della beneficenza, ma la delusione nelle risposte in una trasmissione accondiscendente come quella di Fazio stanno facendo cadere definitivamente l’alone di divinità di colei che ha saputo nascondersi dietro di post su delle pagine social creandosi un’icona immacolata.
Le reazioni alla copertina dell’Espresso
La copertina de L’Espresso è l’ultimo attacco a quel pezzo di credibilità rimasto alla Ferragni: la donna imprenditrice che vince perchè ha racimolato soldi. In pochi hanno letto le notizie diffuse sui media un pò di anni fa che vedevano il brand Ferragni essere messo in vendita sul mercato anche per una esposizione finanziaria dovuta da una situazione debitoria sulla carta di piccolo conto. Se però le cose stanno come dice L’Espresso, la realtà sullo stato di salute delle sue società potrebbe essere diversa.
Riflessioni alle reazioni
Molti hanno reagito alla copertina della Ferragni con stupore ed indignazione, ma fa riflettere in realtà il fatto che nessuno abbia letto l’articolo e soprattutto tutti, dinanzi ad una persona che si presenta in un modo e dimostra di essere diverso da come viene descritto, lo apostroferebbero come un pagliaccio.
E fa male essere presi per i fondelli da un pagliaccio … questo nessuno ha il coraggio di ammetterlo.
Editoriali
Solo ora si accorgono del problema televoto e giornalismo musicale
Leggo molte critiche al “cartello di giornalisti” che ha boicottato la vittoria di Geolier a Sanremo. Sono davvero convinto che sia andata così, ma sono certo della tanta “colleganza” che oggi predica bene, ma ha sempre razzolato male per quel che concerne il discorso di “cartello”.
E non riguarda solo la musica, ma anche il calcio, la politica … quindi di cosa parliamo?
Qualche settimana fa fui molto chiaro: chi tratta moda, spettacolo, musica e gossip non si può considerare giornalista.
Chi lo fa dal punto di vista della critica diversamente lo è e vi assicuro che assistiamo a tanti giornalisti sportivi, che hanno visto milioni di partite, e non capiscono di calcio. Vediamo chi dei nostri farà un esposto all’Ordine per quel collega che ha commentato di non far votare la Campania.
Altra cosa: il 90% dei giornalisti che la criticano, non avrebbe avuto il coraggio di fare quell’indegna domanda, ma fondata, a Geolier sul risultato ottenuto “più per i suoi ospiti che per la sua performance”.
Così come hanno fatto più danni dei ladri di polli sanremesi quelli che hanno applaudito Presidenti del Consiglio e Ministri della Sanità nefasti.
Editoriali
Geolier a Sanremo rutta in napoletano. Perchè è un problema per i nativi digitali
Parliamoci chiaramente, questo qui, Geolier, è diventato famoso per una canzone che descrive il livello di tamarraggine napoletana che si manifesta “rint a n’audi nera opaca” dove magari ci si sballa pure.
Nello stesso brano cita tutte marche di lusso … che rappresentano quello stile di vita a cui ambiscono le baby gang che ieri hanno occupato la prima del tg5 nonostante a Napoli siamo in un periodo d’oro rispetto al resto del paese.
Amadeus quest’anno farà come la De Filippi, punta sul lato più becero della napoletanità fatto di lusso a debito che poi si sposa con il mondo degli influencer e della moda. Conferma anche di sapersi nascondere bene dietro l’equazione “è seguito, quindi può anche essere pericoloso e di scarsa qualità, ma è forte“
Che poi è il modello che i genitori evitano di caldeggiare per i propri figli, ma puntualmente vengono smentiti da social e tv. E la risposta è “il ragazzo fa numeri”.
Tra l’altro, il monologo in napoletano dell’anno scorso al festival ha anticipato la sua presenza ed era davvero pessimo, tanto da farmi prendere le distanze da un mio compaesano.
Questa non è Napoli e soprattutto non è l’evoluzione della napoletanità da tramandare alle nuove generazioni.
Perchè qui non si discute Geolier l’artista, che merita di fare il suo percorso e di vincere Sanremo, ma di Geolier che parla a nome dei napoletani. Ognuno si sceglie gli ambasciatori che merita, di certo non è una casa di moda o un affarista come Amadeus che decidono chi debba rappresentare un’intera città.
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