Google “deprezza” gli articoli e Benanti tace: l’inquisizione dell’informazione è vicina?

Google UE testa l’impatto dell’assenza di notizie su Search e Discover e deprezza il giornalismo, mentre Benanti fa finta di niente.

da Livio Varriale
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Per chi ha fretta

Dopo aver escluso alcuni media dalla rete, Google è arrivata alla conclusione: con il giornalismo non si guadagna

La commissione AI del Governo sembra essere tranquilla: nè Barachini nè Benanti proferiscono parola sul tema, probabilmente visti gli ottimi rapporti con Diego Ciulli di Google “premiato” meritevolmente da Baracchini in persona.

In Italia, mentre emergono conflitti Etici e di opportunità di Benanti, oltre a quelli noti di Barachini, l’operazione di circoscrizione dei media è sempre più visibile.

E gli standard di valutazione sono quelli delle agenzie di validazione che hanno fatto fact-checking in modo pretestuoso e politico: simile a quando Benanti parla di Musk

Google ha pubblicato un’analisi completa sull’effetto dell’assenza di contenuti giornalistici nei suoi servizi in Europa, in risposta all’Articolo 15 della Direttiva Europea sul Diritto d’Autore. Il rapporto, intitolato EU 2025 Report on the Value of News Content, documenta un esperimento su vasta scala che ha coinvolto otto paesi dell’UE e più di 13.000 domini editoriali. L’obiettivo era determinare l’effettivo impatto economico per Google dell’esclusione dei contenuti coperti da diritti connessi.

L’esperimento ha fornito risultati chiave: l’assenza di contenuti giornalistici non ha influito significativamente sui ricavi pubblicitari complessivi di Google, mentre ha causato solo una lieve flessione nell’utilizzo di alcune proprietà, soprattutto Discover.

Obiettivo dell’esperimento: misurare il “valore economico reale” dei contenuti editoriali

Per rispondere alle richieste di trasparenza da parte di regolatori e editori, Google ha progettato un esperimento randomizzato controllato (RCT) tra novembre 2024 e gennaio 2025. L’intervento ha rimosso completamente dai risultati di Search, Discover e Google News tutti i contenuti provenienti da pubblicazioni considerate “editori di stampa” secondo l’Articolo 15 della Direttiva.

Il test ha coinvolto 1% degli utenti in Italia, Spagna, Polonia, Paesi Bassi, Belgio, Grecia, Danimarca e Croazia, per un totale di 13.409 domini esclusi. Sono stati analizzati sia utenti loggati sia non loggati, e l’effetto è stato esteso a tutte le query di ricerca, non solo a quelle legate alle notizie.

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Declino minimo nell’uso di Search, forte impatto su Discover

I risultati di utilizzo mostrano un declino dello 0,77% nei DAUs di Web Search, statisticamente significativo ma contenuto. Per Discover, invece, si è registrata una perdita del 5,47% negli utenti attivi giornalieri, mentre Google News ha visto un impatto neutro, o in alcuni paesi addirittura leggermente positivo.

In termini di comportamento utente, gli editori non interessati dall’esclusione (come YouTube, Wikipedia o Facebook) hanno registrato un aumento significativo dei clic, segno che gli utenti hanno rapidamente adattato le loro abitudini.

Ricavi pubblicitari invariati: nessun calo significativo in Search e solo un leggero impatto su Discover

Il parametro più rilevante, ovvero i ricavi pubblicitari, non ha subito variazioni statisticamente significative. In particolare:

  • I ricavi da Search sono rimasti stabili (+0,02% su tutti gli utenti; +0,23% tra loggati).
  • Discover ha perso circa il 2% dei ricavi, un impatto marginale considerando il peso limitato di questa proprietà.
  • I ricavi su proprietà correlate come YouTube, Gmail, Google Play e siti terzi sono rimasti invariati.

Nel complesso, l’intero “ecosistema Google” non ha mostrato alcuna perdita rilevante di fatturato. L’impatto totale, calcolato tenendo conto dei diversi margini (77,3% per Search e simili, 32% per Display Ads), è stato dello 0,03% negativo, all’interno della soglia di insignificanza statistica.

Implicazioni per l’Articolo 15 e i negoziati con gli editori

L’esperimento fornisce dati concreti nel contesto delle negoziazioni con gli editori europei, chiamati a definire compensi per l’uso esteso dei contenuti giornalistici da parte delle piattaforme digitali. Le evidenze indicano che, pur essendo utili per l’esperienza utente, i contenuti editoriali non sono economicamente cruciali per i ricavi pubblicitari di Google, almeno nel breve periodo.

Google sottolinea nel report che i risultati non devono essere interpretati come una svalutazione del giornalismo, ma come un’analisi tecnica della sua rilevanza pubblicitaria diretta. L’azienda ribadisce il suo impegno nei programmi di licensing (Extended News Previews), già attivi con oltre 4.400 testate europee.

Analisi per paese: Discover più vulnerabile, Search stabile ovunque

A livello nazionale, le variazioni di traffico sono coerenti con la media generale:

  • Web Search: cali modesti ovunque (es. -1,11% in Spagna, -0,70% in Italia).
  • Discover: flessioni più marcate (es. -9,91% in Belgio, -6,78% in Danimarca).
  • Google News: in crescita in alcuni paesi, come Spagna (+11,73%) e Croazia (+7,24%).

Dal lato ricavi, nessun paese ha mostrato variazioni statisticamente significative su base nazionale per l’intero ecosistema Google.

Il giornalismo è importante per la società, ma non guida i ricavi Google

L’esperimento UE di Google chiarisce un punto fondamentale nel dibattito sulla remunerazione dei contenuti editoriali online: la presenza o meno di notizie ha un impatto marginale sul business pubblicitario della piattaforma. Gli utenti continuano a utilizzare Search per scopi commerciali e funzionali, anche in assenza di notizie, mentre servizi come Discover si dimostrano più sensibili alla presenza editoriale.

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Per le trattative future tra editori e piattaforme, il report rappresenta un punto di partenza numerico: valore giornalistico e valore pubblicitario sono entità distinte, e non sempre sovrapponibili.

Cosa fa la Commissione AI nell’informazione del Governo italiano?

Dal punto di vista dell’informazione, Google intende sottolineare come le notizie non siano affatto “poco importanti”, bensì poco remunerative per il proprio modello di business. È un tema su cui Matrice Digitale si sofferma da tempo, e i fatti odierni ne confermano la rilevanza: il Governo Italiano sta rispondendo (in anticipo, a sentire le nostre analisi) alla posizione della Unione Europea, secondo una logica discutibile, tutta incentrata su “aziende verificate” che, in concreto, rispecchierebbero un assetto oligarchico.

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Commissione AI – fonte Governo

Ci troveremmo di fronte a una catena, o meglio una “filiera” dell’informazione, che attingerebbe le notizie quasi esclusivamente da fonti ritenute “verificate” da organismi che, troppo spesso, confondono il vero giornalismo con una sorta di propaganda, utile a supportare le necessità dei governi in carica. Le conseguenze, secondo Matrice Digitale, sono evidenti: se i contenuti considerati “autorevoli” sono in buona parte stabiliti da criteri politici o da un ristretto numero di enti certificatori, il dibattito pubblico rischia di perdere vitalità e pluralismo. Siamo, dunque, al cospetto di un oligarchia mediatico che, dietro l’etichetta delle “fonti certificate”, potrebbe veicolare l’agenda desiderata dalle istituzioni, marginalizzando voci e prospettive alternative.

Due modi di fare giornalismo

Il problema, in realtà, non si concentra semplicemente sugli aspetti fattuali dell’informazione, bensì sulla profonda frattura esistente tra due modalità di far giornalismo: da un lato, la corrente statunitense legata al “nuovo corso” di Donald Trump, dall’altro, l’approccio progressista o democratico, che negli scorsi anni ha tentato di arginare o limitare l’influenza del trumpismo con il giornalismo che ha adottato un metodo scientifico di tipo accademico con una sola e grossolana diversità:

quello che si pubblica ed è certificato non può essere sbagliato.

Il passo indietro degli USA ed il consolidamento europeo

In pratica, negli Stati Uniti si è venuta a creare una netta dicotomia, che si riflette sui media e sul loro metodo di selezionare e diffondere le notizie.

Da questa contrapposizione, emergono due visioni diverse della società: la prima, più conservatrice, che fa leva su una retorica spesso definita populista, nazionalista o contraria ai “vecchi poteri”, la seconda, più aperta e “woke” (in senso positivo o dispregiativo, a seconda dei punti di vista), che verte sui temi dei diritti civili, dell’uguaglianza e dell’inclusione e Benanti è in netto contrasto con Musk a causa delle posizioni economiche del Vaticano nelle ONG salva profughi su cui il proprietario di X si è più volte scagliato contro. Naturalmente, la presenza di queste due anime si riscontra anche in Europa, sebbene con sfumature locali: alcuni Paesi si ispirano maggiormente alla linea trumpiana, altri continuano a guardare a un modello di stampa e di informazione basato sulle regole “progressiste”.

Il risultato è un equilibrio fragile, dove ciascun “blocco” si è venuto a consolidare in una sorta di ecosistema informativo a sé stante, con le proprie testate, i propri influencer e il proprio pubblico di riferimento. È una situazione che probabilmente rischia di polarizzare ulteriormente il dibattito, poiché chi sceglie una visione tende a ignorare o a demonizzare la controparte, ed è singolare che a farlo sia un prete ed un tecnico di Governo, con il pericolo che il pluralismo venga soffocato da un costante scontro ideologico.

Benanti: salvatore o sommo inquisitore?

Il ruolo di Paolo Benanti all’interno della Commissione AI dell’Informazione, in particolare per quanto riguarda l’intelligenza artificiale applicata all’informazione, solleva diversi interrogativi. Da un lato, egli appare intenzionato a proporre una legislazione che regolamenti il rapporto tra IA e giornalismo; dall’altro non è difficile rilevare il rischio che questa “visione” possa favorire un mercato editoriale estremamente ristretto e concentrato nelle mani di pochi attori.

In primo luogo, esiste la questione di Google, che da un lato tende a “deprezzare” le notizie in termini di ritorno economico (non essendo il core business della multinazionale), ma dall’altro risulta al momento l’unica grande società tecnologica a fornire dei contributi diretti agli editori sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista dei rubinetti dell’algoritmo. Tuttavia, se si analizza quali editori riescano realmente a beneficiare di tali fondi, emerge che i destinatari principali siano sempre gli stessi, spesso i più grandi gruppi editoriali dove lo stesso Benanti collabora su più fronti (articoli, rubriche, partecipazioni) nel ruolo di divulgatore.

Questo scenario induce a chiedersi quale sia la reale concezione del pluralismo dell’informazione per Benanti e per la Commissione che rappresenta. Sembrerebbe che, secondo tale prospettiva, bastino e avanzino le cosiddette “testate storiche” del Paese, mentre a rimanere fuori da qualsiasi sostegno o considerazione sono le realtà minori, magari autosostenibili, che contribuiscono alla diversificazione delle voci sul mercato. Proprio in questa lacuna si colloca la critica:

se un religioso – in questo caso, un prete francescano – si facesse portatore di un’etica ispirata a principi di equità, non dovrebbe forse difendere la necessità di un’informazione più aperta, che non escluda le piccole iniziative editoriali?

Invece, Benanti parrebbe allinearsi con la visione tipicamente sostenuta dall’Unione Europea, che combina il finanziamento di attività editoriali ritenute “autorevoli” con l’obiettivo di incidere, attraverso meccanismi come la regolamentazione degli algoritmi, su quali contenuti abbiano maggiore o minore visibilità in rete. Questo aspetto assume particolare rilievo se si considera che stiamo parlando di intelligenza artificiale: non si tratta solo di impostare criteri di fatto per stabilire cosa sia vero o falso, ma anche di attribuire un peso politico o “culturale” a certe informazioni.

Il punto è che un’impostazione del genere crea il rischio di una voce unica: solo i colossi editoriali, affiancati dalle big tech, dopo che sono stati impoveriti, stabiliscono la linea narrativa principale, mentre le piccole testate che tentano modelli di business alternativi restano estromesse. Chi si aspettava un approccio più inclusivo da parte di Benanti, magari in nome di valori francescani di solidarietà e promozione del “basso” (cioè delle minoranze, delle voci fuori dal coro), potrebbe restare deluso: il suo operato sembra avvicinarsi a quelle dinamiche “oligarchiche” già denunciate da Matrice Digitale, nelle quali un ristretto gruppo di testate domina il mercato e detta le regole dell’informazione.

La domanda allora diventa: perché un esperto di intelligenza artificiale – e, soprattutto, un uomo di Chiesa – non si pronuncia con maggiore chiarezza sulle conseguenze sociali di un’informazione affidata a pochi player e a regole d’ingaggio dettate dalle piattaforme e dai governi?

E’ singolare che ci sia una forte presenza mediatica di Benanti sui mezzi dei grandi editoricon collaborazioni, spazi editoriali e master o seminari di prestigio (si veda, ad esempio, il rapporto con la Business School del Sole 24 Ore o quello con la Luiss la cui scuola di giornalismo gestita da Gianni Riotta, anima italiana della famigerata NewsGuard, è anche il centro Europeo scelto per il monitoraggio ed il contrasto alla disinformazione). In tal modo, le accuse di scarso pluralismo e di “indifferenza” verso le piccole realtà editoriali si rafforzano.

Chi si interessa da vicino alle dinamiche mediatiche sa bene che la intelligenza artificiale non è solo un fatto tecnico; è anche un potentissimo strumento nelle mani di chi stabilisce le soglie di visibilità e credibilità di un contenuto informativo amplificando il già esistente algoritmo che le piattaforme predicano come autonomo, ma che in realtà la storia ha restituito l’immagine di un “omino” a tirarne i fili. Se l’Europa decide di imporre criteri rigidi su “chi è editore” e “chi merita fondi” (magari appoggiandosi a colossi come Google o ONG di cui abbiamo già parlato), mentre gli algoritmi di AI finiscono per enfatizzare le stesse fonti “verificate” dalle istituzioni, risulta evidente il pericolo di una concentrazione eccessiva della sfera informativa.

Un rischio a cui Benanti – se davvero mosso da uno spirito cristiano di inclusione e di attenzione alle minoranze – dovrebbe prestare la massima attenzione e sul quale ci si aspetterebbe una posizione netta.

Eppure, il percorso attuale sembra smentire la possibilità di un suo intervento critico. Gli elementi raccolti da Matrice Digitale mostrano un progressivo consolidamento di pochi grandi gruppi editoriali e dell’idea che i piccoli media, anche se innovativi, siano intralci a un mercato editoriale definito “più efficiente”. Paradossalmente, si tratta di una logica che premia chi già domina, comprimendo la concorrenza e riducendo le voci emergenti. Da un’angolatura meramente etica, ben lontana da quella retorica, sarebbe auspicabile un dibattito aperto sul tema:

se davvero si desidera “regolare” IA e informazione, lo si faccia bilanciando l’esigenza di ordine con la tutela di un sano pluralismo.

In definitiva, la presenza di un uomo come Benanti nel comitato dedicato all’editoria e all’AI potrebbe rappresentare un’occasione storica per definire nuovi standard etici di pluralità informativa. Ma affinché ciò avvenga, la posizione assunta non dovrebbe minimizzare l’importanza di quelle piccole, ma vitali, realtà editoriali che spesso sono le sole in grado di garantire la diversificazione, evitando che pochi attori decidano, di fatto, cosa sia degno di essere divulgato e cosa no.

Benanti: prete o inquisitore?

Da anni, la posizione di Google – testimoniata anche dallo stato attuale dell’informazione – solleva perplessità riguardo all’algoritmo che decide, in ultima istanza, quali contenuti siano “visibili” e quali no. In un panorama come quello odierno, la battaglia di cui Paolo Benanti si fa (volontariamente o meno) portavoce sembra mirare alla costituzione di una lobby dell’informazione, ovvero una cerchia ristretta di soggetti deputati a diffondere “notizie verificate” da precise fonti e con certi standard di riferimento.

paolo benanti
Paolo Benanti

Basti pensare al fallimento di numerosi progetti di fact-checking, scivolati in una “verifica a senso unico”, a causa del vincolo di attingere unicamente a fonti ufficiali o a grandi gruppi editoriali considerati “autorevoli”. Il punto delicato è che Benanti, che formalmente siede nella commissione del governo in materia di “intelligenza artificiale” applicata all’editoria, non possiede un’esperienza specifica nel giornalismo sul campo, e la sua prospettiva appare orientata non tanto verso la tutela di un’etica effettiva, quanto piuttosto alla salvaguardia di un sistema di riconoscimento basato sulle grandi testate.

L’AI e la storia futura del giornalismo e della società

Il rischio è di ritrovarci un’IA addestrata quasi esclusivamente sui contenuti di pochi grandi gruppi mediatici, quelli che già concentrano la maggior parte del mercato. Se questi colossi dell’editoria per di più hanno da tempo travalicato i confini dell’imprenditoria puramente giornalistica – alcuni sono emanazioni di grandi holding industriali, altri di gruppi finanziari, altri ancora rispondono a una rete di interessi politici – è chiaro che il pluralismo dell’informazione subisca un’ulteriore contrazione. La questione è aggravata dal fatto che, in Italia, gli “editori puri” (coloro i quali vivono e investono unicamente sull’impresa giornalistica) sono sempre meno, mentre prevalgono soggetti che gestiscono “carrozzoni” editoriali in perenne perdita, ma capaci di occupare le posizioni chiave del mercato come il segmento degli armamenti, farmaceutico e della finanza.

Google “deprezza” gli articoli e Benanti tace: l’inquisizione dell’informazione è vicina?

Benanti tace su Google e Meloni?

Nel frattempo, Benanti tace sui risultati della recente ricerca di Google, il che appare quantomeno significativo per chi conosce il funzionamento dei media e la complessità dei progetti editoriali. Una commissione di governo che si occupi di IA e informazione potrebbe – almeno in teoria – rivelarsi un’ottima occasione per incrementare la trasparenza e il pluralismo. Tuttavia, come spesso accade quando si giunge al potere, sorge la tentazione di “razionalizzare” l’informazione in rete, traducendola in un sistema di controllo e certificazione gradito a chi governa. Non sorprende, dunque, che la stessa Giorgia Meloni, in passato molto critica verso la “poca democrazia” dell’informazione mainstream, oggi fatichi a prendere le distanze da scelte che paiono andare proprio in una direzione di minore apertura e confronto.

Non si tratta soltanto di questioni tecniche legate all’algoritmo e all’IA: in gioco vi è l’equilibrio tra il ruolo dei piccoli editori indipendenti e quello dei grandi conglomerati mediatici, con la prospettiva di un mercato ancor più chiuso e orientato alle convenienze politiche. Il “silenzio” di Benanti sui nodi irrisolti della ricerca di Google e, più in generale, sulle dinamiche di concentrazione editoriale, segnala che le riforme allo studio potrebbero non assicurare il pluralismo che molti si attendevano, ma favorire, al contrario, un ulteriore consolidamento del potere informativo nelle mani di pochissimi.

Si può anche come

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