Editoriali
La Bestia di Tangentopoli ha vinto contro Morisi
Pochi giorni dopo le elezioni quello che rimane di Morisi e della sua storia è che l’inventore della Bestia social di Salvini non è uno spacciatore, ma solo un gay con il brutto vizio della droga.
Quello che dovrebbe emergere, dopo aver assistito al dibattito sulla notizia del party orgiastico, è invece che la Bestia non è morta, anzi, è più viva che mai ed ha sembianze un pò vintage sia per i suoi componenti sia per il metodo comunicativo applicato.
Nonostante l’appello di Lapo Elkan, una delle vittime di Salvini, nel mantenere toni bassi sulla vicenda, la sceneggiatura andata in onda è stata la solita:
- Si è alzato il polverone
- Si è individuato il nemico
- Lo si è attaccato senza dargli la possibilità di risposta
- Il tutto dietro la scusa che gli attacchi sono partiti per prima dalla parte opposta, adesso offesa.
Sarà una coincidenza, ma Morisi è stato gettato nell’agone del dibattito social per relegare nell’ombra Salvini ed il suo apparato, non sempre politicamente corretto per carità, e il fatto ha avuto un doppio effetto sia sulla leadership sia sull’esito elettorale, e non è un caso che Meloni sia stata travolta dall’inchiesta perfetta, quanto la tempesta che l’ha travolta pochi giorni prima del voto, di Fanpage.
Oltre all’accusa di spaccio che è stata diffusa sui giornali, c’è addirittura chi ha definito la bestia uno strumento terroristico, peggio addirittura dei protagonisti degli anni di piombo con cui si è condivisa una ideologia politica, c’è chi ha paragonato Morisi agli spacciatori a cui Salvini ha dedicato ampio spazio nelle sue accuse, addirittura per dare maggior risalto al caso si è data la proprietà della linea editoriale dello stesso premier della Lega, descrivendolo come il burattinaio delle parole che in video rappresentavano il primo partito d’Italia.
Qual è la colpa di Morisi?
La vera identità di Morisi, prima dello scandalo, è quella di essere un docente universitario ed un professionista visionario al servizio del partito evidentemente sbagliato e gliel’hanno riconosciuto anche i suoi nemici sul campo nel caos più totale fatto di indiscrezioni, anticipazioni strambe e condanne eseguite senza una sentenza.
Da come sono andate le cose è morta la bestia di Morisi ed ha vinto l’altra bestia, quella che a livello internazionale lavora da tempo per chiudere le pagine social di una parte e vuole estendere il dominio editoriale già attualmente predominante sui media tradizionali per consolidarsi e macinare un pensiero unico.
I Social sono un campo di battaglia
In una società che vota sempre di meno e sposta le sue opinioni quotidianamente su diverse piattaforme digitali, la politica ha perso la sua efficacia di fornire una riflessione sugli eventi, prediligendo invece lo humor della giornata. Le strumentalizzazioni sono all’ordine del giorno, idem le notizie distorte che circolano, ma questo ovviamente fa parte del gioco. Un gioco che fa aumentare profitti ed importanza ad una piattaforma, rispetto che a un’altra.
Quello che è sotto gli occhi di tutti viene tenuto segreto fin quando fa gioco ad un potere rispetto che a un altro. Nel 2017, nel volume La prigione dell’umanità, ho trattato dettagliatamente le misure adottate dai social network per generare maggiore interesse su se stesse ed incollare per ore il pubblico. Sembrava un qualcosa di fantascientifico, ma in fondo si è scoperto che la strategia è proprio quella di essere divisivi. Tra gli esempi utilizzati nell’argomentare questa strategia, si è spiegata la questione israeliana dove i social come Facebook tenevano ben lontane le rappresentazioni palestinesi, almeno in occidente. Una teoria, la mia, che fu anche presa con scetticismo da un giornalista di fama nazionale come Nicola Porro.
Così come Facebook ha più volte osato con il suo algoritmo collegando persone che non si amavano nella vita reale, generando in comunità ristrette maggiori tensioni sociali.
Perché nessuno ne parla?
La struttura dei social “divisivi” è emersa in questi giorni dall’informatrice, ex dipendente di Facebook, e molti si sono mostrati sorpresi. Quello che però va detto è che questo aspetto è chiaro da tempo, ma invece di risolvere il problema, nel mondo si cerca di lottizzare le piattaforme per abbattere il nemico e prendersi tutta la fetta e lo si fa minacciando il social di renderlo uguale a tutte le altre società e quindi di spogliarlo dei privilegi che oggi gli consentono di essere delle piazze virtuali private, ma che in effetti svolgono un ruolo pubblico. Ecco perché oggi sono pochi ad essere credibili quando si parla di neutralità dei social, perché, quelli che vengono chiamati ad intervenire sulle questioni in materia, molto spesso sono gli stessi che invitano a sputare nel piatto dove mangiano i novax, che inflazionano la parola razzista e fascista per muovere orde di persone contro e in alcuni casi creano fake news di potenziali rischi antisemiti come i 40.000 commenti al giorno contro la senatrice a vita Liliana Segre.
Il ruolo del “generale” Morisi
Tutto questo è parte di una guerra, dove Morisi e quelli come lui prestano servizio in capo a una o all’altra parte, ma non sono loro a dettare la linea come ci hanno voluto far credere, bensì hanno l’incarico di diffondere il pensiero del proprio assistito e nella Lega questo è avvenuto utilizzando uno strumento che è stato invidiato da molti senza che qualcuno sia riuscito a replicarlo ed ecco allora che si è passati al gioco pesante dove la Bestia era l’obiettivo mentre il suo autore poteva essere anche diffamato e distrutto con le svariate scuse. Le dichiarazioni di Pillon, la crisi interna alla Lega tra l’ala governativa e Salvini, lasciano intendere che Morisi rappresentava un personaggio scomodo all’interno di una riforma interna al Partito.
La giusta riflessione da fare
Può una società privata gestire l’anticamera dell’urna impunemente, magari affidandosi a una parte rispetto ad un’altra?
E’ possibile evitare di pilotare le bolle, lasciandole al caso e non cedere pezzi di algoritmo al politico che ti intima di applicare una determinata linea editoriale?
Il concetto di guerra politica dovrebbe garantire equità nei limiti stabiliti da legge.
Bandire il fascismo e il razzismo non basta, bisognerebbe anche prendere seri provvedimenti sulle campagne di fango che vengono lanciate come nel caso di Morisi, ma anche di Cucchi. Riconoscere con il senno di poi che una persona ha avuto ragione su un determinato fatto e non lasciare all’estemporaneità una vicenda che ha fatto morti e feriti o semplicemente ostaggi politici che verranno liberati dopo che l’effetto dello scandalo che li ha coinvolti sarà svanito.
Questo è necessario farlo per far sì che i social prendano la giusta piega ed esprimano più il concetto di internet libero che di testate pilotate da interessi editoriali e non è un caso ad esempio che su Twitter si muovano gli stessi giornalisti che in barba al garantismo da anni intrattengono campagne di attacco sui media tradizionali.
Non è un caso che il vero successo di Salvini e di Morisi, ma anche del Movimento Cinque Stelle che oggi tutti dimenticano seppur abbia avuto il maggior numero di pagine Facebook in passato, è stato quello di anticipare uno strumento da sempre utilizzato sulla carta stampata proprio da chi oggi esulta per la morte della sua bestia.
Uno strumento nuovo, ma che per modi e metodi, ha il sapore vintage dei tempi di Tangentopoli, manca solo un lancio di Bitcoin ed il quadro è completo in salsa moderna.
Editoriali
Ferragni pagliaccio: l’indignazione della rete alla prima dell’Espresso
Tempo di lettura: 2 minuti. La copertina de L’Espresso su Chiara Ferragni vestita da pagliaccio ha scatenato diverse reazioni, ma chi ha letto l’inchiesta?
Chiara Ferragni compare truccata da pagliaccio in prima pagina de L’Espresso che ne descrive la scarsa trasparenza nella gestione societaria e si fa riferimento a scatole cinesi, manager indagati e dipendenti pagati poco.
Tutto legale fino ad oggi, sia chiaro, ma se questo è il modello di Business da studiare ad Harvard, si può ampiamente pensare che negli USA siano arrivati tardi. Ritornando con i piedi per terra e conscendo molte realtà statunitensi, sarebbe da stupidi mettere Chiara Ferragni al primo posto di come si gestisce un’azienda: non è la prima e nemmeno l’ultima.
Matrice Digitale è la testata che ha denunciato per prima l’affaire di Sanremo, che ha giudicato la Ferragni per quello che si è mostrata da Fazio: un’utile manichino senz’anima al servizio delle case di moda.
Non solo lo scandalo nella gestione della beneficenza, ma la delusione nelle risposte in una trasmissione accondiscendente come quella di Fazio stanno facendo cadere definitivamente l’alone di divinità di colei che ha saputo nascondersi dietro di post su delle pagine social creandosi un’icona immacolata.
Le reazioni alla copertina dell’Espresso
La copertina de L’Espresso è l’ultimo attacco a quel pezzo di credibilità rimasto alla Ferragni: la donna imprenditrice che vince perchè ha racimolato soldi. In pochi hanno letto le notizie diffuse sui media un pò di anni fa che vedevano il brand Ferragni essere messo in vendita sul mercato anche per una esposizione finanziaria dovuta da una situazione debitoria sulla carta di piccolo conto. Se però le cose stanno come dice L’Espresso, la realtà sullo stato di salute delle sue società potrebbe essere diversa.
Riflessioni alle reazioni
Molti hanno reagito alla copertina della Ferragni con stupore ed indignazione, ma fa riflettere in realtà il fatto che nessuno abbia letto l’articolo e soprattutto tutti, dinanzi ad una persona che si presenta in un modo e dimostra di essere diverso da come viene descritto, lo apostroferebbero come un pagliaccio.
E fa male essere presi per i fondelli da un pagliaccio … questo nessuno ha il coraggio di ammetterlo.
Editoriali
Solo ora si accorgono del problema televoto e giornalismo musicale
Leggo molte critiche al “cartello di giornalisti” che ha boicottato la vittoria di Geolier a Sanremo. Sono davvero convinto che sia andata così, ma sono certo della tanta “colleganza” che oggi predica bene, ma ha sempre razzolato male per quel che concerne il discorso di “cartello”.
E non riguarda solo la musica, ma anche il calcio, la politica … quindi di cosa parliamo?
Qualche settimana fa fui molto chiaro: chi tratta moda, spettacolo, musica e gossip non si può considerare giornalista.
Chi lo fa dal punto di vista della critica diversamente lo è e vi assicuro che assistiamo a tanti giornalisti sportivi, che hanno visto milioni di partite, e non capiscono di calcio. Vediamo chi dei nostri farà un esposto all’Ordine per quel collega che ha commentato di non far votare la Campania.
Altra cosa: il 90% dei giornalisti che la criticano, non avrebbe avuto il coraggio di fare quell’indegna domanda, ma fondata, a Geolier sul risultato ottenuto “più per i suoi ospiti che per la sua performance”.
Così come hanno fatto più danni dei ladri di polli sanremesi quelli che hanno applaudito Presidenti del Consiglio e Ministri della Sanità nefasti.
Editoriali
Geolier a Sanremo rutta in napoletano. Perchè è un problema per i nativi digitali
Parliamoci chiaramente, questo qui, Geolier, è diventato famoso per una canzone che descrive il livello di tamarraggine napoletana che si manifesta “rint a n’audi nera opaca” dove magari ci si sballa pure.
Nello stesso brano cita tutte marche di lusso … che rappresentano quello stile di vita a cui ambiscono le baby gang che ieri hanno occupato la prima del tg5 nonostante a Napoli siamo in un periodo d’oro rispetto al resto del paese.
Amadeus quest’anno farà come la De Filippi, punta sul lato più becero della napoletanità fatto di lusso a debito che poi si sposa con il mondo degli influencer e della moda. Conferma anche di sapersi nascondere bene dietro l’equazione “è seguito, quindi può anche essere pericoloso e di scarsa qualità, ma è forte“
Che poi è il modello che i genitori evitano di caldeggiare per i propri figli, ma puntualmente vengono smentiti da social e tv. E la risposta è “il ragazzo fa numeri”.
Tra l’altro, il monologo in napoletano dell’anno scorso al festival ha anticipato la sua presenza ed era davvero pessimo, tanto da farmi prendere le distanze da un mio compaesano.
Questa non è Napoli e soprattutto non è l’evoluzione della napoletanità da tramandare alle nuove generazioni.
Perchè qui non si discute Geolier l’artista, che merita di fare il suo percorso e di vincere Sanremo, ma di Geolier che parla a nome dei napoletani. Ognuno si sceglie gli ambasciatori che merita, di certo non è una casa di moda o un affarista come Amadeus che decidono chi debba rappresentare un’intera città.
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