Chi ha chiuso i profili di Matrice Digitale? Acn o Garante Privacy? I sospetti dei lettori

di Livio Varriale
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Il giorno successivo all’attacco ai profili di Matrice Digitale e alla rimozione del canale storico YouTube di Livio Varriale, è accaduto qualcosa che disegna con chiarezza la frattura dello spazio pubblico digitale: un’ondata di solidarietà da parte del pubblico, contrapposta a un vuoto istituzionale che, almeno per ora, si giustifica soltanto con ragioni burocratiche. La comunità che ha seguito in questi anni il lavoro di inchiesta su sicurezza informatica, crimine online e guerra cibernetica ha reagito con forza; le istituzioni chiamate in causa non hanno ancora risposto. Ed è proprio in questa asimmetria – vicinanza dei lettori, lontananza delle istituzioni – che si inseriscono ipotesi, dubbi, ricostruzioni, sospetti di pressione esterna e, allo stesso tempo, un’analisi più fredda su errori sistemici delle piattaforme.

La cancellazione algoritmica e la chat che smentisce sé stessa

Il quadro che ha preceduto la chiusura è stato segnato da una conversazione con l’assistenza YouTube che racconta, da sola, la sfiducia procedurale che governa le piattaforme. Di fronte all’“Avviso per violazione delle Norme della community” legato al video “Armi in vendita nel Dark Web. The Armory”, Livio Varriale ha chiesto supporto riportando di aver già effettuato rieducazione e presentato ricorso. L’operatore, che si presenta come umano (“Sono un ragazzo”), prima riconosce il problema e promette di fare del proprio meglio, poi afferma di non vedere alcun avviso, invita a “non fare altro” e chiude la conversazione. Gli screenshot esibiti dall’utente, secondo l’operatore, non cambiano la valutazione. Due giorni dopo, 24 ottobre, arriva la chiusura del canale; il ricorso “che richiede almeno 48 ore” viene respinto in tre minuti. È l’emblema di una doppia verità di piattaforma: l’assistenza rassicura, l’algoritmo condanna. La democrazia digitale che si affida a questo tipo di giustizia privatizzata mostra il suo volto più fragile: opacità, rapidità punitiva, assenza di contraddittorio.

La solidarietà del pubblico e il vuoto istituzionale

Il giorno dopo la comunicazione al pubblico rimasto su X e sugli altri profili sopravvissuti, sono arrivate decine di attestazioni di stima. Un pubblico esigente, abituato a cercare contenuti originali e documentati, ha riconosciuto il valore del lavoro svolto. In parallelo, le istituzioni sollecitate non hanno ancora prodotto una risposta. L’assenza, al netto di possibili ritardi amministrativi, rende più fertile il terreno del sospetto: è stato davvero solo un algoritmo a rimuovere contenuti d’inchiesta, oppure qualcuno ha “spinto” perché quella voce scomparisse?

Tra complottismo, pressioni e realtà dei fatti

La tentazione di leggere l’accaduto come un complotto è forte. Ma Matrice Digitale impone a sé stessa lo stesso metodo usato nelle inchieste: separare indizi, coincidenze, ipotesi. C’è chi ritiene che agenzie nazionali possano aver esercitato pressioni per “spegnere” l’unica voce indipendente nel panorama della cybersecurity italiana. È un’ipotesi che, per quanto grave, va misurata sui tempi degli eventi e sui precedenti. Ed è qui che il quadro cambia.

Il dossier fantasma e la cronologia che smonta l’ipotesi “Garante”

Un anonimo ha ricordato, spifferandolo su WhatsApp, come Matrice Digitale abbia portato alla luce il “dossier fantasma” sul Garante Privacy prima che la vicenda deflagrasse nel circuito mainstream e prima delle sanzioni che hanno coinvolto altri soggetti. Da questa sequenza, alcuni hanno dedotto che proprio il Garante possa aver “agitato le acque” contro la testata. I fatti smentiscono la semplificazione: la vicenda Garante–Dossier è esplosa prima del primo ottobre, mentre la rimozione su Meta ha colpito il primo ottobre e la storia YouTube si è consumata nei giorni successivi quando la polemica si era estesa al provvedimento su Report. La concatenazione temporale non regge un nesso causale diretto. L’ipotesi “pressione del Garante” appare, allo stato, non supportata da quanto accaduto.

Il fattore meta e i falsi positivi industriali

C’è poi un’altra pista, più lineare e purtroppo più verosimile: errori sistemici dell’intelligenza artificiale nella moderazione Meta. Già in passato, le segnalazioni automatiche avevano colpito contenuti legittimi, inclusi notiziari su funzioni di WhatsApp o perfino comunicati stampa ufficiali legati ad AGCOM. In questo contesto, la segnalazione al Business Manager può essere stata innescata da classificazioni sbagliate, con un effetto domino su profili collegati e pagine. È il “difetto di fabbrica” della moderazione massiva: parole chiave decontestualizzate, assenza di lettura giornalistica, etichettatura infamante su materiale che in realtà analizza e smonta abusi e truffe.

Il fronte ACN, il video su AWS e le coincidenze scomode

Sul fronte YouTube, nelle settimane precedenti alla chiusura, il canale personale Livio Varriale aveva pubblicato pochissimo. L’ultimo video risaliva a circa 90 giorni prima. Poi la pubblicazione di un contenuto realizzato con NotebookLM di Google, costruito su fonti di Matrice Digitale e dedicato al caso AWS. Un tema sfuggito a molte testate, nonostante le possibili ripercussioni sistemiche. Matrice Digitale aveva sollecitato più volte ACN a includere la testata nella mailing list ufficiale, ricordando il presidio h24 sui temi di sicurezza: nessun esito. Dopo la pubblicazione del video, ACN non ha smentito nel merito, ma ha avviato una comunicazione istituzionale sui 53 milioni di euro destinati al funzionamento e sulle 123 borse di studio. Sul caso AWS, nessuna parola. Nel frattempo, Matrice Digitale aveva documentato una possibile violazione del perimetro NIS dell’“ecosistema cloud” legato al colosso di Jeff Bezos.

Che questa insistenza critica abbia irritato chi gestisce la sicurezza nazionale?

È un interrogativo legittimo, anche alla luce dei precedenti in cui la testata è stata bersaglio proprio per l’ostinazione con cui ha ricostruito fatti scomodi.

Il tema del conflitto di interessi e la comunicazione pagata

Su ACN si proietta un’altra ombra: il conflitto di interessi. Lo Stato, attraverso l’Agenzia, paga 150.000 euro a un influencer per attività di comunicazione sulla sicurezza cibernetica. Qui il problema non è il linguaggio divulgativo in sé, ma la asimmetria che produce:

un soggetto retribuito dallo Stato potrà mai sostenere, con la stessa libertà critica, l’ipotesi di una violazione o di un guasto in un’infrastruttura straniera con ricadute sul perimetro nazionale?

La risposta, per buon senso, è no ed il tentativo di infangare la testata ai tempi di Baldoni, fu respinta al mittente dopo le dimissioni per accertata incapacità del primo presidente di ACN nel gestire i DDOS degli Hacktivisti russi. La conseguenza è un ambiente informativo distorto, dove la critica indipendente è svantaggiata e la narrazione istituzionale viene amplificata da voci sponsorizzate. In questo contesto, persino la NIS2, brandita nei post divulgativi, rischia di diventare cornice retorica più che strumento di tutela.

Non serve il complotto quando basta la concorrenza

C’è un’uscita dal frame complottista che, paradossalmente, rende la situazione più grave. Non serve immaginare manovre occulte per spiegare la sparizione digitale di una voce scomoda; basta la concorrenza dentro un mercato dell’attenzione dominato da piattaforme. Una voce libera e indipendente, che non vive di veline e non si allinea alle narrazioni comode, disturba. Disturba i governi quando solleva domande sui fornitori strategici, disturba i media conformisti quando mostra documenti, disturba gli attori privati quando rompe i rituali della comunicazione.

In uno scenario simile, bastano segnalazioni orchestrate e un algoritmo fallace perché la voce critica cada, mentre restano in piedi quelle compatibili con gli interessi dominanti.

Le piattaforme non tutelano: falsi positivi, assistenza impotente, moderazione inconsistente

Se esistono pressioni esterne o interferenze, spetta alle Istituzioni accertarlo. Ma qualcosa è già accertato dai fatti: le piattaforme non tutelano il lavoro giornalistico. La catena di moderazione che colpisce Matrice Digitale è quella tipica delle infrastrutture private: scanner automatici che estraggono parole, contestualizzazione zero, graduatoria di rischio cieca, assistenza front desk che nega l’evidenza, ricorsi-lampo che ratificano decisioni già prese. In questo contesto, parlare di democrazia digitale è un’abitudine linguistica più che una realtà: diritto di cronaca, libertà di stampa e pluralismo vengono piegati alle Policy che proteggono la piattaforma prima del cittadino.

Una voce critica, onesta, scomoda

Mentre si attende che lo Stato apra gli occhi e agisca – perché tutela del diritto di cronaca e verifica delle censure private sono parte della sovranità – resta la fotografia dell’oggi. Matrice Digitale non è la voce perfetta: è critica, ostinata, scomoda. È anche onesta con il proprio pubblico, come dimostrano anni di inchieste su truffe, campagne di educazione alla denuncia, strumenti di segnalazione per proteggere i cittadini. In un Paese che dice di voler alzare il livello del dibattito sulla sicurezza cibernetica, spegnere questa voce significa abbassare il livello del dibattito, abbassare le difese del pubblico, abbassare la qualità della democrazia. E se c’è qualcuno che ride di questo esito, è segno che la propaganda sta vincendo sulla cronaca. In fondo, la verità che emerge da questa vicenda è meno romanzesca e molto più politica:

quando la conversazione pubblica vive in piattaforme private, la giustizia diventa un servizio clienti. E quando la giustizia è un servizio clienti, basta un ticket chiuso con “non vedo avvisi” per confermare una sentenza già scritta.