Putin sigilla vittorie sul campo, e sulla pelle dei suoi cittadini, ed è subito partito l’allarme che il Cremlino ha finito armi e munizioni. Gli stessi missili e proiettili dichiarati finiti a 10 giorni dall’inizio della guerra e che avrebbero portato al primo rallentamento della Russia sul campo, seguito dalla prima vittoria della resistenza ucraina, mentre le prime sanzioni sortivano gli effetti desiderati.
Purtroppo c’è qualcosa che oggi non torna dopo 5 mesi di guerra. La Russia è in vantaggio nella guerra militare contro l’Ucraina che adesso deve recuperare il territorio perduto, o evitare di perderne ancora, con le armi che l’Occidente le ha mandato e che non sono mai abbastanza.
La Russia ha il potere di pagare il debito verso l’estero, ma l’Occidente non lo vuole saldare, così come le sanzioni si sono dimostrate un grande boomerang contro l’Europa e le sue politiche energetiche. L’Ucraina dal canto suo chiede 5 miliardi al mese ed è in rischio default a settembre per un prestito di 900 milioni che ad oggi non potrà essere onorato.
L’occidente fornisce armi all’Ucraina e non si è dichiarato in guerra, ma in supporto dell’invaso, di conseguenza l’economia va a picco a seguito della risposta commerciale russa in campo energetico ed in Italia si registra un’inflazione così negativa che ci riporta nell’anno nero 1986 e, nonostante questo, nessun politico occidentale, economista, giornalista filogovernativo ha il coraggio di definirla “economia di guerra“.
All’improvviso, tra un ritorno del Covid ed una guerra che stiamo vincendo anche se non capiamo come, l’Italia soffre una emergenza siccità improvvisa, ma se si da uno sguardo ai titoli dei giornali di 30 anni fa, questi denunciavano l’esigenza di investire capitali nella manutenzione della rete idrica italiana che già allora disperdeva alti volumi di oro blu.
Tutti i guai vengono insieme, recita un antico detto, ma quando si ha a che fare con la politica è difficile credere che la responsabilità sia solo del caso e delle congiunture geopolitiche. Quindi si aprono dibattiti accesi dove gli influencer si prestano alle discussioni di un pubblico che ignora, tra un reddito di cittadinanza e un presunto gruzzoletto messo da parte in via di assorbimento, i problemi in cui può incorrere il paese.
Quali sono i dibattiti?
Dopo il presunto body shaming a Vanessa Incontrada, il dibattito social sulle pizze di Briatore migliori di quelle napoletane, ecco che la Ferragni si spoglia ed il marito inaugura la stagione dei concerti in quel di Milano con un’Aurora Ramazzotti che fa notizia perchè “emozionata” sul palco all’ombra della Madonnina ed il giorno dopo mangia la pizza più buona del mondo con mamma Michelle Hunziker.
Quello che non torna è il silenzio della politica sui social.
Non vola una mosca sui profili dei cittadini del comune di Facebook, guai a pensare che questo avvenga sul futile Instagram, mentre su Twitter c’è solo spazio per la polemica e le strumentalizzazioni a colpi di tweets striminziti con qualche impavido che prova a fare approfondimenti concatenando più di 10 pubblicazioni tra loro.
Ad aggiungersi al quadro, soprattutto su Facebook, abbondano i post con consigli per ogni tipo di coppia, etero o lgbtq+, racconti stile Harmony anche un pò piccanti proposti dai maggiori quotidiani nazionali dove per fortuna mancano storie che incensano rapporti pedofili ed incestuosi.
La politica, però, non si vede.
L’approfondimento non c’è se non in alcune pagine tematiche non disponibili a tutti coloro che ancora credono nell’informazione generalista storicamente autorevole. C’è la guerra di cui bisognerebbe parlare ogni giorno, così come c’è una continua analisi economica dei tempi che verranno da fare, ma è tutto assente.
Il motivo?
E’ iniziato il metaverso dell’informazione: attualità bannata e spazio a contenuti di scarso impatto informativo e culturale, in favore di trend e racconti che esulano dall’interesse che un cittadino dovrebbe avere per essere informato sulle sue condizioni di vita presenti e future.
Per molti sembrerà una strategia voluta dalle piattaforme con il fine di evitare scontri divisivi e maggior lavoro di moderazione, ma la verità è un’altra. Post politici saranno sempre meno e il dibattito social dei paesi sparirà dalle piattaforme che si affideranno esclusivamente ad una selezione di testate scelte sulla base di accordi commerciali ed editoriali.
Questo Facebook lo prova a fare già da tempo, ma non è mai riuscito nel suo intento perché l’informazione ordinaria ha sempre trovato molte resistenze tra gli utenti social che si sono dirottati su fonti alternative non sempre attendibili e che rappresentano l’origine di alcune bufale in rete. Fisiologica la migrazione degli utenti mondiali su Telegram dove circolano tutte le informazioni ed è oggi un ecosistema che ospita 700 milioni di persone interessate soprattutto alla libera circolazione di notizie.
La mancanza di fiducia nei media e l’impoverimento delle questioni sociopolitiche sui social non è altro che una strategia di disinformazione programmata non basata sulle notizie false, ma sull’assenza di notizie rilevanti. Quando c’è però bisogno di comunicare o di informare su una questione sensibile, si pubblicano solo le veline istituzionali che non appartengono solo al diritto di cronaca, ma sono veicolate alla “critica” di un’unica posizione.
Sono queste le dinamiche che rendono poco credibili le informazioni sui media “ordinari” nei quali è riscontrata da parte del pubblico un’assenza di approfondimenti diversi anche solo su basi simili, ma con leggere sfumature di interpretazione. Non è possibile avanzare dubbi che subito si etichetta chi si pone alcune domande nella categoria generale degli “anti“, dei “nemici del popolo” e dei “terrapiattisti“.
Non è possibile controllare la democrazia, altrimenti ogni tentativo risulterebbe impopolare ed antidemocratico, ed è per questo che è meglio affidarsi alla “ignorazia” e l’aiuto di influencer non acculturati è il meglio che c’è per distogliere le masse dai veri problemi che un tempo rappresentavano il “sale della democrazia“.