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Chiara, pensati libera. Napoli, l’Italia, hanno Geolier e le sue ombre

Tempo di lettura: 6 minuti. Ferragni in disgrazia social mentre Napoli e l’Italia festeggiano Geolier che, secondo gli esperti, ha appena iniziato ad avere successo.

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Napoli è pazza di Geolier. Il rapper napoletano di Secondigliano ha sbancato al televoto del festival di Sanremo tra mille polemiche, arrivando secondo classificato, tra cui quella di aver partecipato al Festival con un testo in dialetto grazie ad una deroga di Amadeus al regolamento.

L’idolo delle nuove generazioni di tutto lo Stivale con con tantissimi successi collezionati nelle migliori classifiche internazionali, è diventato un mito nella sua città di origine per lo stile con cui ha respinto le accuse alla sua musica ed alle insinuazioni che in alcuni casi puzzavano dell’unico razzismo concesso nell’Italia progressista: quello contro i napoletani. Motivo ha voluto anche che Geolier sia andato a Sanremo: per rappresentare la Napoli della riscossa, a suo dire, ed è stato osteggiato in casa dai puristi della lingua partenopea e da coloro che ne hanno sindacato le origini del successo artistico.

L’attuale idolo di Napoli più volte ha raccontato attraverso le sue musiche ed i suoi video quella Napoli criminale, presentandosi al grande pubblico con AK47 d’oro e mostrando comportamenti non proprio civili come quello di impennare su un motorino senza casco. Questi campanelli d’allarme non sono bastati a far scattare pareri cautelativi da parte della borghesia napoletana e soprattutto da coloro che ne dirigono i fili delle Pubbliche Amministrazioni, compresi i contesti accademici illuminati. Dopo il successo sanremese, Geolier è stato premiato dal sindaco di Napoli ed è stato accolto con un invito formale all’università Federico Secondo per parlare della sua storia fatta di riscatto da una periferia nota alle cronache del mondo per essere terra di Gomorra.

Perchè Geolier è la nuova Ferragni

L’esplosione di Geolier accade in un momento storico ben preciso nel mondo dei social network e precisamente durante la caduta dell’impero d’immagine del brand Chiara Ferragni in seguito a multe per presunte truffe presentate al pubblico sottoforma di beneficenza. Il sostenere che chi ha creato la Ferragni ha già provato a sostituirla, è stato un’analisi puntuale, e non è fuori luogo credere che tutta la miniera d’oro scavata in questi anni dall’influencer più nota d’Italia verrà pian piano occupata da Geolier con la spinta del brand Napoli.

Un fenomeno prima popolar e poi nazionale, perché partito dei quartieri di periferia di Napoli e poi sbarcato sullo scenario nazionale ed internazionale grazie ai social network ed alla piattaforma musicale Spotify dove con 6 milioni di visualizzazioni al mese Geolier regna sovrano su tutti gli altri artisti contemporanei del panorama musicale italiano. A differenza di molti che hanno avuto bisogno di Sanremo per farsi conoscere o essere rilanciati dopo anni di fallimenti e disastri, Geolier è andato a Sanremo portando la sua nutrita base di cui molti veterani erano all’oscuro.

Ad aggiungere un ulteriore spinta al giovane ex operaio di fabbrica, c’è anche il mondo della moda con gli stilisti blasonati che stanno scommettendo sul “manichino” Geolier da vestire e lo stesso cantante ostenta molta ricchezza come copione del Rap vuole. Non mancano infatti foto del cantante con indosso abiti firmati che rappresentano la chimera da raggiungere per la maggior parte dei giovani di oggi figli delle famiglie italiane sempre più povere e con pochi mezzi per accedere al lusso. Spaccato sociale che spesso riemerge a macchia d’olio nello stivale per eventi di cronaca nera, frutto della mentalità dell’ottenere tutto e subito ad ogni costo.

La Federico II come Harvard

L’operazione pulizia dell’immagine borderline di Geolier è già iniziata in città. Dopo il premio del sindaco Gaetano Manfredi, ex rettore della Federico II, la stessa università ha invitato Geolier a parlare al pubblico utilizzando la stessa strategia di legittimazione che fu fatta a suo tempo con Chiara Ferragni presso il prestigioso ateneo statunitense di Harvard dove tenne una lezione sul suo modello di business innovativo perchè tra le prime influencer nel mondo dei social media. Difficile contestare questa analogia. La strategia in atto nei confronti di Geolier rappresenta un modello oramai già consolidato per rendere un personaggio con una storia di classe sociale debole, brutto dirlo seppur sia vero, e di un modello estremamente diverso dai canoni “aristocratici”, controverso nei contenuti, quanto più forte. Lo si fa scomodando pareri accademici per legittimare non solo di uno stile musicale, bensì di un modo di vivere che non riesce alla maggior parte dei ragazzi che si ritrovano in Geolier perchè come lui provengono da famiglie di origini difficili e contesti degradati. Non è un caso che per difendere Geolier ed il suo testo scritto in uno slang napoletano molto elementare, proprio da sedicenni moderni su WhatsApp, si è subito mobilitato un docente della stessa università che poi l’ha invitato a parlare.

Il carro di Geolier

Un altro aspetto da non sottovalutare è che in virtù dei suoi numeri così forti, il beniamino partenopeo è stato già vestito in occasione della passerella di Sanremo dalla Società Sportiva Calcio Napoli con cui ha chiuso un accordo di sponsorizzazione che dovrebbe portare le sue canzoni all’interno dello stadio Maradona nel corso delle partite di Serie A. Anche questo dettaglio fa comprendere che la macchina del carro di Geolier sia stata presa da assalto opportunamente da coloro che ne hanno bisogno in termini di immagine ed in termini di rappresentanza istituzionale.

Dinanzi ad una città ed ai suoi giovani, tra i più numerosi in Italia in termini di penetrazione demografica, il carro di Geolier è stato poco osteggiato dal popolo in virtù della sua partecipazione a Sanremo, facilitato dal fatto che più rappresentanti del mondo del giornalismo lo abbiano stroncato non tanto per le sue qualità musicali, bensì per il fatto che avesse attirato una fiumana di gente sul televoto della Kermesse canora più famosa d’Italia definita “di indubbia provenienza”. E’ stato questo il fattore scatenante di una rivincita anche da parte di coloro che non vedono Gioelier di buon occhio e la presenza di tre big della musica come Gigi D’Alessio, il milanese-svizzero Gué, Luchè della storica band Co’Sang, da cui trova origini il filone dell’hip-hop partenopeo, ha accompagnato il cantante nella serata cover dove ha stracciato al televoto anche la commuovente, seppur non eccelsa prestazione, Angelina Mango che si è immedesimata nella canzone del suo defunto padre.

Quando le cose vanno bene, nessuno ha il coraggio di contestare le scelte musicali di un artista dal punto di vista qualitativo, ma se ne sfruttano i numeri così come ha fatto lo stesso Bob Sinclar che vorrebbe realizzare un pezzo con Geolier. Nessuno si è messo contro dal punto di vista artistico del cantante anche perché è difficile commentare tecnicamente uno stile sconosciuto ai più come quello della musica rap, ma che negli ultimi anni sta racimolando consensi su tutta la Penisola. Lo dimostra il fatto che Gioelier sia il cantante più ascoltato fuori dal suo perimetro di Secondigliano in grandi città come Roma, Milano ed altre metropoli italiane, e questo rende ancora più ostico farselo nemico. Quindi meglio sia amico, sfruttando il volano di opinioni e pareri positivi che attualmente la sua immagine sta incassando. Perché se prima Geolier era famoso, ed è lui che ha portato a Sanremo un contributo maggiore di visibilità traghettando Amadeus definitivamente verso il successo di aver sdoganato il festival tra i giovani, oggi il cantante napoletano è il fenomeno da supportare per svariati motivi, compreso quello di riuscire a massimizzare accordi commerciali e musicali attraverso partnership a cui abbiamo assistito negli ultimi anni tra artisti blasonati e non napoletani nell’ecosistema della musica giovanile.

Le ombre di Geolier

Dietro quel faccione umile e quelle risposte da persona per bene che hanno respinto accuse spesso infamanti, c’è tutto un modo che andrebbe messo all’attenzione della società civile che dimostra incoerenza su questioni ben più serie del dialetto.

Per quanto riguarda l’aspetto etico delle operazioni intraprese in favore dell’immagine dell’artista, c’è da fare una riflessione seria che non può non scindere l’aspetto commerciale da quello meramente istituzionale. Perché se si fa un’analisi di un potenziale fatturato con cui chiunque ha interesse ad associare il suo nome a Geolier, risulta molto difficile digerire il fenomeno sotto l’aspetto sociale. Se i numeri danno un segno di forza che rende una conversione degli investimenti fatti sul personaggio in termini di immagine, dovrebbe essere difficile normalizzare un modello come quello di Geolier in un contesto sociale dove tra le critiche, comprese quelle del mondo accademico che lo sta premiando con un cappello, figura quella che rappresenta l’opposto di come i giovani dovrebbero essere al giorno d’oggi nella società definita dagli standard elitari.

Non si può trascurare il fatto che il suo testo scritto in napoletano sia in realtà uno slang giovanile che rappresenta una crisi culturale di una popolazione che viene additata di non saper leggere e nemmeno scrivere. Stupisce che questo venga normalizzato da un ateneo come evoluzione del dialetto napoletano. Questo modo di fare è quello già visto negli ultimi anni dove si utilizza il metodo accademico per sancire delle verità che in realtà restano controverse, o addirittura false e strumentali, ma c’è anche il fattore umano che vede Geolier essere ancora oggi rappresentante di un popolo in grave sofferenza e che spesso lamenta l’assenza delle istituzioni sul proprio territorio.

Sorprende per questo motivo la scelta di un sindaco di dare maggior valore ad una figura che in realtà è l’esempio del fallimento della politica stessa. Qualcuno direbbe che è un modo per avvicinare le istituzioni al popolo deluso, ma è chiaro che ci troviamo dinanzi all’ennesimo impoverimento della politica dinanzi ad interessi privati su cui si scommette il rilancio della città in controtendenza alle misure del Governo definite “dure” contro i contesti criminali ed il degrado da loro generato. Un’americanata già vista e ben sponsorizzata nei filoni politici progressisti con l’intervento di una corrente potente quanto solvibile dal punto di vista economico composta da multinazionali che hanno la capacità di cambiare, manipolare ed influenzare il pensiero soprattutto delle nuove generazioni … e non è una coincidenza che Geolier si rivolga proprio a loro.

Inchieste

Le elezioni in USA sono la prima guerra civile cibernetica

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Cosa hanno in comune la guerra cibernetica tra la Russia e l’Ucraina e la corsa alle presidenziali degli Stati Uniti d’America?

Può sembrare una suggestione, ma la massa critica dell’Occidente che merita un posto nei salotti tv e nelle pagine di giornale si muove oggi allo stesso modo di quando si escludeva dal giro coloro che non la pensavano ugualmente a quell’area con posizioni diverse sulla pandemia e sul conflitto russo ucraino. Mentre oggi parliamo dell’ennesimo attacco alle infrastrutture ucraine da parte di Fancy Bear, noto APT russo che rappresenta una delle maggiori insidie a livello internazionale nel contesto della guerra cibernetica, si ritorna con la mente all’inizio del conflitto e precisamente quando gli esperti del settore, cooptati secondo l’appartenenza ad un’area, hanno imbastito una narrazione che recitava i successi del fronte occidentale nella cyberwar.

Matrice Digitale mai ha creduto a questa storia, proprio perché parla di guerra cibernetica quotidianamente da tempo ed ha sempre offerto al lettore le notizie dal campo, precisando continuamente la differenza tra il collettivo Anonymous, infiltrato da bande armate della NATO che si spacciavano hacktivisti, ed i gruppi militari statali storici che da tempo preoccupano l’Occidente attraverso cyber attacchi e strategie di cyber spionaggio.

L’ultimo malware emerso in questi giorni, ha messo KO i servizi di riscaldamento di un’intera zona dell’Ucraina, e questo atto si aggiunge alle conclamate azioni di abbattimento dei ripetitori satellitari via SAT il giorno prima dell’invasione russa, quello della cancellazione degli archivi della Polizia Ucraina che ha consentito un blackout dal punto di vista della giustizia amministrativa.

Perché oggi parliamo di guerra cibernetica riferita alle elezioni americane?

Perché di conflitto digitale si tratta, con la sola differenza che avviene tra nemici della stessa popolazione e dello scenario politico locale e si dibatte su un livello diverso da quello dei danni materiali scaturiti dalla guerra perché il luogo scelto è quello del campo dell’informazione e dei social media: luoghi da sempre additati per essere infestati dalle fake news di provenienza russa come parte di una strategia di guerra asimmetrica osservata più volte in questi ultimi 10 anni.

Accertata l’esistenza del conflitto e della propaganda online della Russia, grazie anche alle testimonianze storiche ottenute dalla scoperta dell’operazione Doppleganger, c’è da segnalare anche il fatto che ad esistere non c’è solo quella del Cremlino, ma anche di molti altri paesi come Cina, Iran, Corea del Nord e finanche lo stato amico di Israele. Senza tralasciare la componente NAFO che si è adoperata sui social come X nell’adottare le stesse strategie adottate dal Cremlino.

Dovrebbe far riflettere nell’epoca della post verità il fatto che molte notizie bollate come frutto o strategia della propaganda russa, in realtà si sono dimostrate fondate e scomode per l’establishment europeo ed il fatto che sia esistita, ed esista, questa strategia, c’è una base per dimostrare che delegittimare qualsiasi cosa provenga dai confini sovietici serve a tenere una comfort area utile alla governance di un intero continente in guerra.

Non è un caso che una delle prime azioni adottate dall’Unione Europea ed inserita nel pacchetto di sanzioni sia stata quella proprio di sanzionare, oscurandole, le maggiori testate giornalistiche russe sul suolo del vecchio continente in cui si professa la libertà di stampa e la libertà di espressione e che si traduce ai tempi del web in una effettiva chiusura dello spazio cibernetico per fini di sicurezza nazionale o continentale.

Già con la pandemia si è instradata la libertà della rete nell’anglosfera europeista ed atlantista in una dimensione di controllo e censura costante attraverso il dominio dei social networks ed il loro controllo attraverso regolamenti, sanzioni, vere e proprie delegittimazioni sia verso utenti e professionisti dell’informazione con un sistema preventivo di valutazione delle notizie sia verso le piattaforme con leggi europee come il Digital Services Act, denominato da molti Ministero della Verità, che promette multe salatissime verso le piattaforme social che non si adeguano non solo alla pulizia dei contenuti vietati per legge, ma anche verso coloro che non applicano filtri su determinate notizie decise da una cabina di regia, indipendentemente dal fatto che siano vere o false.

Avete già dimenticato quando Macron provò a far applicare in anticipo il Digital Services Act per oscurare in rete le rivolte francesi dopo l’omicidio della polizia a Marsiglia?

Questo metodo è oramai rodato sin dai tempi della pandemia ed i riscontri sono sono stati forniti proprio dagli stessi proprietari delle piattaforme social, fino ad arrivare alla guerra in Ucraina con le piattaforme di Meta che hanno addirittura implementato un sistema di social scoring cinese ed hanno utilizzato lo strumento dello shadow ban senza avvisare gli utenti. Il ban ombra è utilizzato nei nei confronti di utenti o pagine, comprese quelle di attivisti e giornalisti, che pubblicano post che non saranno mai letti anche se dovessero un milione di seguaci perché vittima di un ban costante che consente all’algoritmo di tagliare totalmente la visibilità dei loro contenuti.

Lo shadow ban non esisteva fino a poco tempo fa, come molte cose era una teoria di complottologhi, ma poi si è scoperto che lo shadow ban è uno strumento dei complottisti in danno alla libertà di espressione e non solo è accertato che esiste, ma è proposto da alcuni salotti come la soluzione al contrasto dell’odio in rete seppur in realtà cancellerebbe ogni forma di dissidenza civile. Se si ricorre a questa strategia, nessuno può mettere in dubbio che quelle adottate in precedenza non sono state in grado di garantire l’onorabilità di chi ci governa.

A questa riflessione si aggiunge anche la dichiarazione di Elon Musk che ha accusato l’Unione Europea di togliere eventuali sanzioni nei confronti di X qualora lo avesse adottato verso gli utenti indicati dall’UE e sappiamo già anche di quale area di pensiero.

Cosa c’entra Trump con la guerra cibernetica?

L’aspetto ancora più curioso sulle elezioni americane, e lo abbiamo già trattato nell’inchiesta sull’attentato a Trump, ed è il fatto che la democrazia faro dell’Occidente, ispiratrice dei nostri valori, abbia vissuto in diretta un attentato terroristico al candidato Presidente allo stesso modo come avviene in Paesi, da noi considerati pericolosi, antidemocratici e corrotti come il Messico o la Colombia. A questo si aggiunge anche il fatto che si è parlato molto poco di questo evento, chiuso con la liquidazione del capo dei Servici Segreti, alle dimissioni di Biden ed ha spianato la strada alla candidatura di Kamala Harris. In risposta a questa candidatura, nell’aria da mesi per chi segue realmente e senza filtri le dinamiche USA, abbiamo un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America dato per vincitore e scampato ad un attentato che può godere di un finanziamento di 45 milioni circa al mese fino alla data delle elezioni da parte di un magnate che ha speso 44 miliardi di dollari per acquistare una piattaforma social protagonista, negli anni della pandemia, della stessa censura partigiana sulle tematiche del Covid ed in parte anche del conflitto russo-ucraino.

Questo gioco di potere che compete contro il mondo dell’informazione da parte di Elon Musk, sta creando molti problemi all’establishment europeo schierato totalmente contro la piattaforma X con la speranza di riuscire a censurare quanto prima, o almeno il più possibile, le informazioni inerenti la campagna elettorale americana che possano invogliare l’elettorato verso una preferenza trumpiana. La storia dei bot russi è difficile da argomentare sia perché sono state scoperte delle reti, obsolete, sia perchè esistono reti utilizzate dalla NATO molto più all’avanguardia e molto più incisive dal punto di vista della penetrazione sulle piattaforme social.

Nell’opinione pubblica, è consolidato il parere che le reti della disinformazione online agiscono di pari passo con i canali di informazione ufficiale che spesso sposano delle narrazioni non corrispondenti alla cronaca dei fatti che trattano.

Come si sta posizionando l’Italia?

L’Italia si sta posizionando politicamente come si posiziona l’Europa che ha paura di una salita di Trump perché può danneggiare realmente l’economia europea e può smentire gli ultimi 4 anni tra pandemia e conflitto ucraino che culminerebbe con la fine del gelo atlantista con i paesi canaglia, dissolvendo la guerra che lo stesso Trump ha promesso di far cessare in pochi giorni se verrà eletto. C’è molta agitazione e lo si nota anche dal fatto che già sono partite azioni sull’opinione pubblica che tendono a vittimizzare in modo secondario Trump “perchè ha subito un attentato terroristico, vi è scampato ed ora se ne approfitta per fare più voti“. Una narrazione di difesa alla già pessima attività di delegittimazione di chi sosteneva i visibili problemi di salute di Biden, ed i guai giudiziari di suo figlio, ed oggi ci si trova a fare i conti con il passato di Kamala Harris, descritta come figlia di immigrati, ma in realtà sembrerebbe non essere underdog come la Meloni.

L’Italia oggi critica Elon Musk e lo fa anche attraverso esponenti di Governo che lo definiscono senza scrupoli, rovinando quel rapporto positivo apparente che Giorgia Meloni aveva o ha instaurato con il proprietario di X e Tesla, prim’ancora di ricucire con l’ala Trump dopo non aver votato per la Von der Leyen quando si è trattato di decidere la presidenza della Commissione Europea. Attualmente il nostro Paese rivive per l’ennesima volta la campagna di influenza che c’è stata nel 2016 quando nel bel Paese si dava per scontata la vittoria di Hillary Clinton per poi svegliarsi all’ultimo minuto la mattina post elezioni con la sorpresa della vittoria di Donald Trump che smentì totalmente tutta la stampa che oggi esprime la stessa speranza nella vittoria di Kamala Harris anche con qualche sondaggio che la vede preferita dagli italiani rispetto a Donald Trump. Basta leggere i commenti su X per capire che la situazione sia ben diversa ed è proprio questo il motivo per il quale siamo all’interno di una guerra cibernetica dove l’obiettivo da abbattere è forse l’unico social network dove la libertà di parola, nella sua accezione positiva e negativa, è ancora viva.

Peccato che l’esperimento democratico di X nell’Europa della libertà di pensiero, di espressione e di stampa non sia gradito e non merita di essere premiato secondo una imposizione dall’alto vestita con abiti divini.

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Inchieste

QPress: la stampa mainstream è diventata QAnon?

Tempo di lettura: 5 minuti. Trump è accusato di fare sponda ai QAnon, ma la stampa mainstream, armata di autorevolezza e fact-checkers, sembra aver preso il suo posto

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Capita che quest’inchiesta era programmata per la settimana prossima, ma con una pistola fumante come l’attentato a Trump, definito “incidente” o “caduta” dalla stampa pluripremiata, pluricertificata e pluriautorevole, ridotta oramai alla versione Dem di QAnon, non si può non pubblicare oggi.

Le ultime elezioni degli Stati Uniti d’America hanno sancito la vittoria di Joe Biden contro Donald Trump. Una vittoria che ha scatenato tantissime polemiche, come quella sul voto pilotato attraverso il sistema elettronico, materializzando la rabbia dei sostenitori di Trump sconfitti nell’azione controversa occorsa a Capitol Hill.

La forza politica di Trump nasce da teorie complottiste?

L’elettorato di Donald Trump, composto per lo più da quell’America definita profonda fatta di contadini, piccole e medie imprese o provetti cowboy collegati appunto a tradizioni simili a quelle espresse nel film western, compresa la passione per le armi, è da sempre accusato di essere ignorante, stupido e boccalone ed in parte è vero perché rappresenta una componente che, rispetto a quella di Biden, era molto più povera, più popolare e quindi più attratta dal populismo di Trump ed alle leggende metropolitane rispetto all’elettorato di Biden composto dai grandi potentati: compreso quello dei media.

Trump è sempre stato accusato di aver attinto i voti dalla parte più malsana del web come quella di QAnon che ha espresso delle teorie bollate come controverse anche perché alcune si sono dimostrate fasulle, ma alcune sono state smentite troppo presto dalla stampa. Si ricorda ad esempio l’adrenocromo oppure diversi i intrecci tra politica, massoneria (spesso ebraica) e Deep State che non sono stati smentiti, ma nemmeno confermati interamente nella loro narrazione spesso fuori le righe della ragionevolezza.

La notizia che ha fatto più scalpore negli Stati Uniti d’America a suo tempo è stata proprio quella del Pizzagate dove si mormorava che ci fosse un’elite, con tanto di scambio email tra Clinton e Podesta portata a dimostrazione della veridicità dell’evento, e di un giro pedofili che abusava di bambini alimentandone un traffico utile a ricavare adenocromo e abusi sessuali per cerchie simili a quelle presenti nella storia di Epstein.

A distanza di anni, il giornalista che ha sbugiardato questa notizia debunkandola totalmente è stato arrestato per pedofilia. Questo non conferma la teoria del PizzaGate, smentita da un assalto in una pizzeria da parte di un sostenitore della tesi che nulla ha trovato di rilevante, ma è uno spunto che apre ad una riflessione molto più profonda e riguarda l’aspetto di un’elite capace di influenzare i social network tanto da fargli avvalorare i diktat del Governo attraverso pratiche di censura e narrazioni elaborate nelle redazioni che dovrebbero fornire le notizie al pubblico.

Trump contro i Dem: guerra social e media

La guerra tra Trump e Biden nasce quando Trump è stato bannato da Twitter, oggi X passato da Dorsey nelle mani di Musk, che coincide con il periodo di censura da parte dei dipendenti afrodiscendenti e LGBTQ+ su Facebook contro il volere di Mark Zuckerberg. Il CEO di Meta che ha più volte ammesso successivamente di avere avuto pressioni dalle agenzie federali.

Al netto delle logiche da campo di battaglia, i social media ed il loro controllo, bisogna analizzare il gioco della stampa internazionale che oramai da quasi dieci anni ha dibattuto sempre contro Donald Trump in un modo che ha reso l’ex presidente degli Stati Uniti d’America come un incapace, ma soprattutto come un criminale.

Da quanto Trump è salito al potere, il mondo ha visto un’America composta da cause giudiziarie contro i presidenti o i loro staff dove qualche condanna verso Trump è fioccata, rendendolo il primo candidato alla Casa Bianca pregiudicato, ma è risultata poco credibile agli occhi degli elettori che nei sondaggi sembrano volere il caschetto biondo all’attuale presidente Biden e non per colpa del suo status di condannato, ma per qualche storia rilevante che ha mostrato alcuni lati oscuri dopo che è stata minimizzata.

I media votano i Dem?

Ci sono casi controversi nella vicenda di Capitol Hill, così come sono tante le questioni da chiarire sulla pandemia Covid e sul ruolo degli Stati Uniti d’America o di alcune sue lobby dal punto di vista di interessi con la Cina. C’è poi la notizia di Hunter Biden, figlio di Joe, che è stata presentata al pubblico prima come una notizia falsa confezionata da Mosca per poi arrivare nell’ultimo periodo, quando il filo narrativo non era più possibile tracciarlo, come una notizia vera che ha portato qualche problema giudiziario importante per il figlio di Biden. La notizia del figlio di Biden ed il fatto che sia stata oscurata e rigirata come un’azione di un paese ostile, è in realtà rilevante perché il rampollo della famiglia del presidente USA  condivide tantissimi affari con il padre e quindi non è solo il figlio del presidente degli Stati Uniti d’America che, potrebbe essere una persona meno affidabile del padre, ma nei fatti è una persona che cura gli affari stessi del padre in situazioni palesemente in conflitto di interessi come la vendita di armi ed attività lobbistiche nell’Ucraina dove Joe Biden stesso ha contribuito ad esacerbare gli animi con Putin mettendoci del suo nello scoppio della guerra che dura ancora oggi. Quella notizia bollata come propaganda russa, in realtà ha portato anche qualche denuncia ai media che avevano accusato il negoziante entrato in legittimo possesso del laptop pregno di prove di essere un collaborazionista di Mosca.

Prima sta bene e poi sta male: la

La storia di Biden, trattato dai media con molta cautela e permissivismo, culmina con l’intervento della Stampa che conta, e che lo vota nell’80% dei casi, circa le sue condizioni di salute. Un benessere fisico inesistente proposto per un grande periodo di tempo, oltre la ragionevole durata di una balla colossale, ma tutte le bugie hanno le gambe corte ed i media hanno ammesso che l’attuale presidente USA non versa in condizioni di salute utili a potersi candidare ancora una volta alla presidenza. A differenza di quanto raccontato, quelli che rispondono a determinate logiche gradite all’Unione Europea perché ne applicano tutti i diktat, anche censori ed autocensori creandone difatti un cartello a discapito della stampa libera, indipendente e composta da editori puri, in tanti tra opinionisti e giornalisti, hanno dovuto fare dei passi indietro dinanzi all’evidenza della rete che ha proposto prove inconfutabili su molti argomenti compreso quello dello stato di salute di Biden.

Questo è stato possibile anche grazie ai social, a differenza di X una volta passato sotto la proprietà di Musk che non ha censurato notizie vere che riguardavano anche componenti politici di spessore negli Stati Uniti d’America e nel resto del mondo. Seguito anche dal cinese TikTok che è diventato un problema negli USA proprio perchè mostra la società con gli occhi dell’Oriente. Dinanzi alle evidenze, argomentate dai video diffusi in rete, dove era palese che l’attuale POTUS fosse una persona anziana ed incapace di sostenere la corsa alla Casa Bianca.

Stampa 2.0: confermare quanto denigrato in precedenza

Ad oggi, anche i giornali ne stanno chiedendo la rimozione in seguito ai sussulti interni al Partito Democratico. Eppure qualche mese prima gli stessi media, noti oramai per aver avuto posizioni controverse ed instabili sull’andamento della pandemia, delle ricerche scientifiche sul Covid ed allo stesso tempo hanno avuto un approccio più narrativo che cronistico sull’andamento del conflitto in Ucraina, si sono trovati spiazzati a dover riconoscere che quanto negato negli ultimi mesi, con annessa un’attività di delegittimazione della controparte, circa le condizioni di salute di Biden, in realtà fosse vero al pari dei guai giudiziari del figlio presunto e potenziale criminale e non vittima della propaganda russa.

QPress l’arma di Biden alla corsa della Casa Bianca

Chiudere l’inchiesta con una provocazione sarebbe utile. Se Trump ha preso spunto e voti dai Qanon negli anni precedenti, oggi non ha più bisogno del controverso collettivo sia per l’incapacità di Biden sia proprio per il fatto che i democratici stanno implodendo al loro interno e non riescono a trovare un degno successore nonostante le narrazione della stampa. Nonostante si facciano i nomi di Kamala Harris o addirittura Michelle Obama colpita da una storia non confermata che la indica come transessuale, Trump parla il meno possibile perché è sicuro di poter vincere le prossime elezioni.

Alla luce delle riflessioni e delle notizie analizzate, è possibile affermare che il ruolo di Qanon sia passato nelle mani della maggior parte del mondo della stampa che invece ha parlato in modo poco cronistico e molto partigiano di Donald Trump? E l’incidente in PennSylvania lo dimostra dopo aver letto i titoli di CNN e NyTimes: il faro del giornalismo occidentale.

La stessa stampa che aveva previsto e che aveva diffuso veline a livello internazionale circa la vittoria di Hillary Clinton dando già Trump per spacciato nelle elezioni presidenziali prima del confronto del 2020 con Joe Biden.

Ad oggi, è legittimo pensare che il ruolo rivestito dai QAnon in realtà è da diversi anni ricoperto dalla Stampa che si autocertifica grazie a strutture sovranazionali e predilige il Partito Democratico USA?

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Inchieste

Intelligenza artificiale italiana: bolla a stelle e strisce sospesa tra Bruxelles e Vaticano

Tempo di lettura: 5 minuti. L’intelligenza artificiale italiana è una realtà come sostiene Meloni o è un desiderio composto da buone intenzioni di un settore già finito?

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Il mondo dell’intelligenza artificiale si trova in una condizione abbastanza complessa dopo i primi entusiasmi e le dichiarazioni dei leader politici sul tema e quella italiana è esposta più di tutti a margine della presidenza G7 culminata con l’evento di Savelletri dove la Meloni ha provato a dire la sua sul tema a nome dell’Italia.

La politica di Meloni sull’AI

Giorgia Meloni ha istituito due Commissioni di Governo per stabilire il ruolo dell’intelligenza artificiale all’interno della vita sociale e politica italiana, ma da subito ha scontentato in molti per la nomina di padre Paolo Benanti in quota Vaticano, nonostante sia stato presentato in pompa magna dal mainstream come italiano a causa delle sue origini senza tener conto, però, che il francescano è un portatore di interessi del papato che da tempo si propone all’avanguardia sul tema attraverso il concetto di algoretica.

Papa Francesco che parla con un Robot – raffigurazione creata con l’AI

A conferma di quanto scritto c’è l’ospitata di Papa Francesco al G7, che ha sancito l’indirizzo politico del Governo, già noto agli addetti ai lavori e ad un pubblico più attento, che utilizza il Vaticano come strumento per riuscire ad affermarsi a livello internazionale nei tavoli che contano, soprattutto quelli dove si parla di etica. A conferma di questa tesi c’è è la nomina di Paolo Benanti nella commissione AI delle Nazioni Unite.

Tanta digitalizzazione e poca intelligenza artificiale

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Il sottosegretario Alessio Butti

A parte la ricostruzione politica, il Governo parla tanto di intelligenza artificiale, ma nei fatti ha prodotto nulla di concreto se non la digitalizzazione spinta che mancava al paese grazie ai soldi del PNNR spesi abilmente dal sottosegretario Butti. Su questo argomento si spera che l’enormità dei dati generati dagli italiani sia cautelativamente data in pasto all’AI, ma già emergono dubbi sul Fascicolo Sanitario Elettronico e sull’utilizzo delle informazioni raccolte. Un altro rischio è che l’intero pacchetto digitale oggi ospitato su server gestiti dallo Stato, tramite i suoi dipendenti pubblici, potrebbe un domani passare nelle mani dei privati come volevano fare al tempo del Covid con Immuni la classe dirigente politica. Questo timore aumenta dopo che Telecom è stata ceduta a un fondo americano, KKR, gestito da un ex capo della CIA, il generale Petraeus.

Perchè l’Italia è indietro sull’intelligenza artificiale?

Al netto di analisi avveniristiche, proclami presi come oro colato da coloro che non masticano la materia, il momento in cui l’Italia sta spingendo sull’acceleratore dell’intelligenza artificiale in realtà è un contesto in cui si stanno già tracciando le somme.

Giusto investire nell’intelligenza artificiale in questo momento?

È una domanda che tutti si pongono al di là delle belle parole su come l’intelligenza artificiale italiana possa trasformare il mondo che in questo momento volge nella direzione opposta dell’algoretica tanto decantata dalle stanze Vaticane con sede a Palazzo Chigi. L’operazione di puntare tutto sull’intelligenza artificiale rischia di diventare un favore personale del Governo alla Chiesa, stato straniero, e mostra come l’Italia sia in grande difficoltà nel generare una sua offerta concreta. Il ruolo di Padre Benanti serve anche ad attrarre investimenti ed è qui che nasce la necessità di scrivere una narrazione, visibile all’estero, che corrisponde più ai desideri dei politici che allo stato attuale delle cose.

Non è un caso che, negli ultimi giorni, sia emersa una classifica dove lo Stato Europeo che ha attratto più investimenti è la Francia. Un dato che dovrebbe far riflettere sul ruolo dell’Italia in un settore dove non figura nemmeno nelle mappe sul tema. La Francia è un Paese avanti nello sviluppo dell’intelligenza artificiale ed ha una società “statale” che ha iniziato a implementare un modello LLM “sovrano” attraverso una società pubblica ed una finanziata da uno dei fondatori di Google.

Meloni è in grande difficoltà se si paragona l’attività del Governo italiano a quella di altri Paesi, già muniti di infrastrutture digitali pubbliche. L’impressione è che si stia cercando di trovare un equilibrio interno difficile perché si riconosce l’alta probabilità di non ottenere una tecnologia propria e per questo ci si affida ad una soluzione tecnologica complementare a quelle offerte dai nostri alleati. Meloni sa anche di detenere il potere del miliardo di investimenti sul tema contro cui è difficile trovare tecnici, privati soprattutto, che vadano controcorrente al Governo, rischiando di perdere fondi pubblici.

L’AI ha bisogno di 600 miliardi di fatturato

Le multinazionali statunitensi hanno bisogno di recuperare ogni anno 600 miliardi di dollari solo ed esclusivamente dall’intelligenza artificiale per rientrare dagli investimenti in hardware.

Questa necessità di monetizzare, rende l’intelligenza artificiale un grosso problema per le democrazie rimaste indietro come l’Italia, perché se prima internet ci veniva offerto in cambio di varie concessioni e favori alle multinazionali statunitensi quotate a Wall Street, oggi, con l’AI rischiamo di finanziare piattaforme già esistenti per non restare indietro ed allo stesso tempo di crea una dipendenza che porta ad una strada senza uscita. E’ vero, non siamo Russia, Cina e nemmeno Corea del Nord a cui OpenAI ha chiuso le porte, aprendo le finestre attraverso Microsoft, ma è possibile un rischio ricatto AI da parte dei detentori della tecnologia.

Se le big tech dovessero realmente aver bisogno di rientrare dagli investimenti hardware per 600 miliardi di dollari, aumenterebbero le probabilità che l’Italia, che ancora non ha i costosissimi computer per sviluppare un suo modello LLM, non potrà garantire la sostenibilità del settore interno spendendo il solo miliardo stanziato e c’è il rischio concreto di spendere la maggior parte del denaro in tecnologia estera e non innovazione e ricerca interna.

Finito il G7 con questo grande regalo al Papa, instradato dalla lungimiranza e preparazione di Benanti sul tema, sarebbe opportuno discutere in modo concreto sul ruolo dell’Italia nel campo dell’intelligenza artificiale nonostante i tempi sembrino già superati con la forte concorrenza non solo nel contesto globale, anche all’interno del territorio europeo.

L’intelligenza artificiale italiana sospesa tra Bruxelles e Vaticano

Questo è il motivo per cui l’Italia dovrà affidarsi alle piattaforme statunitensi anche per sviluppare i suoi progetti. Resta un dubbio più ampio su come l’Europa possa entrare in gioco con una forza unica e su come possa essere compatibile con la transizione green l’implementazione di un’infrastruttura hardware che richiede materiali preziosi, tanti soldi, e consumi stratosferici di acqua ed energia elettrica. Al momento il Vecchio continente è quello che ha scritto un codice etico sull’AI.

Inoltre, come potrà essere compatibile la nascita di un’intelligenza artificiale europea che racchiuda le sensibilità e i valori di tutti gli stati?

Possiamo immaginare che l’intelligenza artificiale possa essere utile a cancellare i muri delle varie tradizioni su cui si fonda il sovranismo nemico di Bruxelles e lo faccia riscrivendo la storia europea da zero per le generazioni future compresa quella italiana. Progetto ambizioso che potrebbe essere pura fantascienza o semplicemente la naturale evoluzione dell’umanità durante l’era che ci attende, fatta di AI e robotica dove l’Italia è silenziosamente più avanti con eccellenze riconosciute in tutto il mondo, ma non è ancora arrivato il momento di gonfiare un’altra bolla di fondi pubblici.

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