Meta e il Business delle truffe online ignorato dalle Istituzioni italiane e dal Garante Privacy

di Livio Varriale
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Negli ultimi anni, mentre la retorica ufficiale di Meta insisteva sulla sicurezza, sulla moderazione dei contenuti e sulla lotta agli abusi, una realtà molto diversa continuava a svilupparsi sullo sfondo. È una realtà che Matrice Digitale ha raccontato e denunciato con costanza, spesso in solitudine, e che oggi trova una conferma indiretta nelle inchieste internazionali sul crimine informatico e nelle recenti operazioni di sequestro record di bitcoin legate alle truffe online. La verità, come spesso accade, viene a galla tardi, ma quando lo fa mette in fila responsabilità, silenzi e convenienze che chiamano in causa non solo la società di Mark Zuckerberg, ma anche le istituzioni che avrebbero dovuto vigilare e non lo hanno fatto.

Meta, le truffe e un modello di business costruito sul rischio degli utenti

Il punto di partenza è semplice quanto inquietante: una parte del fatturato di Meta viene alimentata da attività truffaldine che prosperano all’interno delle sue piattaforme, in particolare Facebook.
Parliamo di sponsorizzazioni, pagine e campagne pubblicitarie che, dietro l’apparente legittimità di un annuncio regolarmente pagato, nascondono schemi fraudolenti, raggiri, estorsioni e furti che colpiscono soprattutto quella fascia di utenti che negli anni ha popolato Facebook in modo massiccio: persone di età medio-alta, entrate in rete senza una reale cultura digitale, spesso prive degli strumenti per difendersi da un ambiente diventato ostile. Questi utenti, che hanno iniziato a frequentare Internet proprio attraverso Facebook, si sono ritrovati esposti a gruppi criminali organizzati che hanno saputo sfruttare le vulnerabilità cognitive e tecnologiche di una piattaforma costruita per massimizzare l’attenzione e la permanenza online, non certo per mettere al centro la sicurezza. Nel tempo, i raggiri si sono evoluti: dalla semplice ingegneria sociale alle estorsioni, fino ai furti di denaro e di criptovalute, passando per schemi di ricatto che spesso hanno avuto una dimensione sessuale e hanno coinvolto anche minori tra i 17 e i 18 anni, con conseguenze devastanti sul piano umano e psicologico.

10 miliardi l’anno grazie al Cybercrime

Secondo documenti interni ottenuti e analizzati da Reuters, Meta avrebbe stimato per il 2024 che circa il 10% del proprio fatturato globale, pari a oltre 16 miliardi di dollari, provenga da inserzioni legate a truffe, gioco d’azzardo illegale e prodotti vietati, con le sue piattaforme che arriverebbero a mostrare agli utenti fino a 15 miliardi di annunci fraudolenti al giorno e a incassare circa 7 miliardi di dollari l’anno solo dalla categoria di annunci “high risk” già classificati come potenzialmente truffaldini. All’interno dell’azienda, questi introiti vengono definiti “violating revenue” e, invece di essere immediatamente azzerati, vengono gestiti con una logica di “guardrail di fatturato”, dove i team anti-frode non possono prendere decisioni che riducano i ricavi oltre una certa soglia, fissata in un documento al 0,15% del giro d’affari semestrale. In pratica, Meta accetterebbe a bilancio una quota strutturale di guadagni da attività sospette, valutando che eventuali sanzioni regolatorie fino a 1 miliardo di dollari sarebbero comunque inferiori ai 3,5 miliardi che ogni sei mesi arrivano dagli annunci più rischiosi, inclusi quelli che impersonano brand famosi o personaggi pubblici. Ancora più grave, in una presentazione interna di maggio 2025, la stessa Meta riconosce che le sue piattaforme sarebbero coinvolte in un terzo di tutte le truffe andate a segno negli Stati Uniti, arrivando a concludere che è più facile pubblicare scam su Meta che su Google, mentre nel frattempo ignora o respinge fino al 96% delle segnalazioni valide di frode inviate dagli utenti ogni settimana.

Facebook come zona franca per i gruppi criminali

Il quadro che emerge è quello di una piattaforma che, pur avendo strumenti di moderazione e controllo, ha tollerato per anni la presenza sistematica di contenuti e campagne legate alle truffe, traendone un duplice vantaggio. Da un lato, incassando i soldi di sponsorizzazioni, inserzioni e traffico generato anche dalle attività fraudolente. Dall’altro, mantenendo in piedi un ecosistema in cui l’intervento contro questi fenomeni è sempre apparso ritardato, parziale e spesso più di facciata che sostanziale. Il paradosso è evidente: mentre Facebook affinava i suoi algoritmi per ottimizzare il rendimento pubblicitario, segmentare il pubblico e modulare la visibilità dei contenuti, gli stessi strumenti hanno finito per offrire ai criminali un terreno perfetto per profilare le vittime, individuare i soggetti più vulnerabili e massimizzare i profitti delle truffe. A farne le spese sono stati soprattutto gli utenti meno alfabetizzati dal punto di vista digitale, abbandonati in una sorta di zona franca digitale in cui la responsabilità veniva sistematicamente scaricata sulla loro presunta ingenuità, mentre la piattaforma continuava a macinare fatturato.

L’ipocrisia della moderazione: censurare il dissenso, non il crimine

In questo contesto si innesta un altro elemento che Matrice Digitale ha sperimentato in prima persona: la piattaforma che si mostra severa con chi fa informazione indipendente è la stessa che, per anni, ha fatto scarsa pulizia sulle truffe. Da un lato, Facebook censura contenuti giornalistici, chiude pagine, limita la visibilità di testate scomode, come nel caso di Matrice Digitale, che ha visto i propri spazi ridotti o penalizzati per aver affrontato temi sensibili e critici verso il potere digitale. Dall’altro, la stessa piattaforma lascia circolare sponsorizzazioni, gruppi e contenuti palesemente fraudolenti, che promettono guadagni irrealistici, investimenti miracolosi, trading automatico e altre forme di raggiro mascherate da opportunità finanziarie. Questa asimmetria è il cuore del problema: la moderazione colpisce la libertà di pensiero su determinati argomenti e le voci che indagano le responsabilità dei giganti del web, ma appare molto meno incisiva quando si tratta di interrompere flussi di denaro generati dalle truffe. Si crea così un cortocircuito che mette a nudo la vera scala di priorità: la reputazione pubblica gestita a colpi di comunicati e linee guida, mentre la sostanza – la protezione degli utenti – rimane un capitolo aperto e mai davvero risolto.

Il precedente dei moderatori africani e il costo umano del modello meta

Per capire fino in fondo la responsabilità sociale di Meta, basta ricordare l’episodio dei moderatori in Africa, costretti a visionare, per salari irrisori, contenuti tra i più violenti e disturbanti immaginabili.
Quei lavoratori sono stati esposti a video di uccisioni, stupri, torture e abusi sessuali su minori, diventando un filtro umano collocato all’estrema periferia del sistema, incaricato di ripulire la piattaforma dai contenuti più inaccettabili. Questo modello racconta molto del modo in cui Meta ha scelto di gestire le proprie responsabilità: esternalizzare il trauma, collocarlo geograficamente lontano dagli occhi dell’occidente, trasformare l’impatto psicologico su quei moderatori in un semplice costo operativo.
Nel frattempo, agli utenti occidentali veniva offerta l’illusione di una piattaforma “ripulita”, mentre la vera contabilità morale veniva scaricata su chi, in condizioni precarie, passava le giornate immerso nel peggio dell’umanità digitale. Con gli anni, la visibilità di questi contenuti si è ridotta almeno per il pubblico europeo e nordamericano, ma ciò che è rimasto in superficie, e continua a prosperare, è il segmento delle truffe online, molto meno appariscente di un video esplicitamente violento, ma altrettanto devastante in termini economici e sociali.

Matrice digitale, Facebook leak e l’occasione mancata per il Garante Privacy

In questo scenario, Matrice Digitale ha più volte acceso i riflettori su un passaggio cruciale: l’hack mondiale di Facebook, quando milioni – se non centinaia di milioni – di account sono finiti di fatto esposti alla mercé dei criminali. In quell’occasione, non si è trattato di un semplice incidente tecnico, ma di una falla che ha permesso agli attaccanti di ottenere numeri di telefono, indirizzi e-mail e altri dati sensibili, trasformando il tradizionale phishing di massa in attacchi mirati, “spear phishing” costruito su profili e informazioni precise. Da anni, Matrice Digitale chiede un intervento deciso del Garante della privacy su questi episodi, sottolineando come l’inerzia istituzionale abbia contribuito a lasciare gli utenti italiani esposti e non adeguatamente informati sulle conseguenze reali di questi leak. Il Garante, invece, ha mantenuto un atteggiamento definibile quanto meno delicato nei confronti di Meta, evitando sanzioni esemplari o azioni pubbliche di forte impatto, mentre la Polizia Postale avrebbe potuto esercitare una pressione maggiore sulla piattaforma, trasformando il caso in un precedente di riferimento.

Così non è stato. E il risultato è che il perimetro cibernetico del paese è stato violato non solo da un attacco contro un social network straniero, ma da una serie di eventi che hanno aperto le porte a un uso sistematico dei dati degli italiani da parte di gruppi criminali internazionali, senza che le istituzioni reagissero con la forza necessaria.

La maxi operazione nel sud-est asiatico e i 14 miliardi in bitcoin

Il quadro delle responsabilità si allarga ulteriormente se si guarda a quanto emerso nelle ultime settimane: gli Stati Uniti, in collaborazione con Europol, hanno sequestrato una cifra pari a 14 miliardi di dollari in bitcoin, smantellando uno dei più grandi centri di crimine informatico del sud-est asiatico.
Questa operazione ha portato alla luce una rete globale di truffe online che utilizzava soprattutto le piattaforme di Meta – in primo luogo Facebook – come principale canale operativo per raggiungere le vittime in tutto il mondo. Quello che appare evidente, a questo punto, è un doppio piano di responsabilità. Da un lato, per anni la piattaforma ha permesso la proliferazione di queste attività fraudolente, diventando di fatto la principale infrastruttura commerciale per il crimine digitale di quella rete. Dall’altro, lo stesso ecosistema che ha consentito alle truffe di prosperare ha prodotto guadagni enormi, sia in termini di fatturato per Meta, sia in termini di ritorni economici per gli apparati statali che oggi intervengono per sequestrare e redistribuire – secondo le proprie regole – i proventi dell’attività criminale.

Il fatturato tra pubblicità, lobbying e proventi criminali indiretti

Qui si tocca il nodo forse più scomodo di tutta la vicenda: non si parla solo del fatturato diretto di Meta, cioè degli introiti derivanti da inserzioni e sponsorizzazioni, ma di un sistema in cui la piattaforma è inserita in una rete di influenza politica e istituzionale che passa attraverso attività di lobbying nei confronti dei governi europei e italiani. Meta non è soltanto una società privata che vende pubblicità; è un attore geopolitico che parla con i governi, partecipa ai tavoli normativi, propone soluzioni “chiavi in mano” per il contrasto al crimine, alla disinformazione e agli abusi online. Nel frattempo, però, la stessa infrastruttura che si propone come partner delle istituzioni per combattere il crimine digitale è quella che ha ospitato, alimentato e reso profittevole la diffusione delle truffe.
Il cortocircuito è evidente:

da una parte si consente alle attività criminali di funzionare per anni all’interno della piattaforma; dall’altra, si incassano i ritorni del contrasto a quel crimine attraverso sequestri record, indagini spettacolari e narrazioni pubbliche in cui gli Stati si mostrano finalmente efficaci.

A beneficiarne non è solo il bilancio di Meta, ma anche quello dei Governi che, attraverso sequestri e confische, si ritrovano a gestire e ridistribuire ingenti quantità di valore accumulato grazie a un ecosistema digitale che loro stessi hanno tollerato e resta poco del maltolto ai cittadini truffati tantomeno quelli dei paesi come l’Italia che osservano truffe a proprio carico che remunerano i wallet degli alleati.

Il ruolo degli Stati Uniti e la marginalità italiana

Un altro elemento non trascurabile è che il governo che più ha beneficiato di questa fase di contrasto al crimine, nel caso specifico, non è quello italiano, ma un governo straniero – in primo luogo quello statunitense – che da anni viene accusato di esercitare una forte pressione politica ed economica sulle altre nazioni per favorire gli interessi delle proprie big tech, Meta compresa. L’operazione che ha portato al sequestro dei 600 milioni in bitcoin dimostra il livello di controllo e di potere che queste strutture statali sono in grado di esercitare quando decidono di intervenire davvero. L’Italia, al contrario, appare relegata al ruolo di spettatrice, con istituzioni che non hanno saputo – o voluto – imporre una linea autonoma e rigorosa nei confronti della piattaforma, accettando per anni una sorta di sudditanza digitale in cui la difesa del cittadino viene dopo i rapporti politici ed economici con le big tech. Eppure parliamo di un paese in cui il perimetro cibernetico nazionale è teoricamente considerato un asset strategico, ma che nella pratica si è lasciato violare da leak, truffe e campagne di sfruttamento dei dati legate proprio all’ecosistema Facebook.

La domanda finale: è giusto che le istituzioni italiane accettino questo gioco?

Arrivati a questo punto, la domanda sorge spontanea ed è la stessa che Matrice Digitale pone da tempo: è giusto che le istituzioni italiane continuino a consentire questo gioco?
È accettabile che una piattaforma straniera, legata a un governo che tutela i propri interessi strategici e il proprio gettito, possa monetizzare le truffe, influenzare il dibattito pubblico con la moderazione selettiva, censurare il giornalismo indipendente e, allo stesso tempo, diventare partner privilegiato delle stesse istituzioni chiamate a proteggere i cittadini?

La risposta è evidente: no, non è giusto. Ma è anche parte di una partita geopolitica in cui gli Stati che non hanno sviluppato una propria sovranità tecnologica e digitale finiscono per essere esposti, subordinati a logiche straniere e privi di strumenti reali per ridefinire i propri rapporti con le big tech.
Finché questo equilibrio non verrà messo in discussione – non solo con dichiarazioni di principio, ma con atti concreti, sanzioni significative, linee guida vincolanti e investimenti in alternative europee – l’Italia continuerà a muoversi in un perimetro tracciato da altri, subendo le conseguenze di decisioni prese altrove. In questo scenario, il lavoro di chi, come Matrice Digitale, ha denunciato per anni le contraddizioni del modello Meta, assume un valore ancora più importante: documentare, archiviare, collegare i fatti e ricordare che, quando la verità finalmente emerge, è già stata scritta da tempo.