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Editoriali

Cloud Nazionale: oltre ai datacenter, c’è il software

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Il numero crescente di incidenti informatici che hanno coinvolto aziende private di carattere strategico e istituzioni pubbliche, soprattutto del settore sanitario, hanno riacceso la discussione di media e politica sulla necessità di un cloud nazionale al fine di proteggere adeguatamente i dati personali dei cittadini e delle istituzioni stesse.

Sembra tuttavia che l’argomento principale sia limitato all’infrastruttura fisica, ossia datacenter, server e reti di connessione, mentre poco o nulla si è detto riguardo ciò che su tali infrastrutture deve girare, ossia il software.

In effetti qualche parola si è spesa, parlando in particolare di crittografia e di chiavi di criptazione, ma l’argomento è stato trattato in modo alquanto naïf.

Quando si parla di cloud, occorre considerare che tutti i sistemi che lo costituiscono oltre a interagire tra loro interagiscono con sistemi esterni, sia direttamente ad esempio tramite servizi erogati da terzi (mappe, risorse grafiche, risoluzione di domini) sia indirettamente (ad esempio tramite servizi che sincronizzano l’orologio-calendario interno alla macchina).

Tutte queste interazioni costituiscono la superficie d’attacco che va considerata quando si fa la valutazione del livello di rischio del sistema cloud.

E’ evidente che già a questo livello di discussione il concetto di “cloud sovrano” sia da ridimensionare.

Dal punto di vista funzionale, il cloud è un sistema dinamico che permette di adeguare l’offerta di infrastruttura sulla domanda di servizio in un dato istante e in un dato luogo. Per questo nella stragrande maggioranza dei casi le macchine su cui girano i servizi sono macchine “virtuali” che possono essere spostate e moltiplicate a seconda della necessità, anche senza preavviso: la domanda di un dato servizio sono maggiori durante un click-day (eventualità che comunque ci auguriamo di vedere il meno possibile in futuro) che, per esempio, durante ferragosto. Le istanze di una CDN vengono spostate nei datacenter più geograficamente vicini agli utenti che le richiedono; per questo, sommato al fatto che l’utente di una pubblica amministrazione non è necessariamente ubicato sul suolo nazionale, potrebbe essere controproducente avere tutte le istanze raggruppate sul territorio nazionale o, peggio, in un unico datacenter. Turisti e connazionali ubicati all’estero avranno probabilmente frequente necessità di accedere a tale cloud.

Dunque riunire esclusivamente su infrastrutture nazionali tutti i servizi non solo è utopico, ma potrebbe essere anche poco efficiente, se non altro per questioni legale alla geografia.

Dal punto di vista della sicurezza, intesa come robustezza agli attacchi, una sola infrastruttura nazionale potrebbe essere un grandissimo punto debole: il concetto di ridondanza va applicato a tutte le risorse coinvolte in modo da non creare il “Single point of failure” che è di solito il più ghiotto tra i bocconi di un ipotetico avversario.

Come detto, l’argomento relativo alle risorse non hardware è stato limitato al discorso relativo alla crittografia. Questo è secondo me senza senso e fuorviante.

La crittografia moderna funziona perché si è abbandonato il concetto di nascondere l’algoritmo di cifratura; in realtà da secoli si è capito che una buona crittografia funziona se e solo se sono le chiavi ad essere segrete, mentre, viceversa, il consenso nel considerare l’algoritmo come robusto è un requisito fondamentale. Non ha quindi senso parlare di “Crittografia nazionale”, se non nel senso di inquadrare il tutto in un concetto che coinvolge non tanto gli algoritmi quanto piuttosto le procedure dietro la gestione di accessi alle risorse confidenziali. Gestire correttamente sottochiavi, accessi, credenziali e soprattutto la revoca delle stesse, è un punto critico di tutta la discussione.

Resta un punto dolente e assolutamente prioritario in tutta questa discussione.

Il software

Oggi il software di server e client è costituito a volte da centinaia di micro-componenti la cui natura e provenienza è la più disparata. Un meme assai famoso nel settore dell’infosec mostra una costruzione fatta di numerosi blocchi che poggiano su un singolo mattone “mantenuto gratuitamente da un ignoto sviluppatore in Illinois”. Esso descrive benissimo la situazione di software e sistemi in tutto il mondo.

L’incidente con il componente Log4j lo dimostra pienamente. Ci vorranno probabilmente anni prima che tutti i componenti critici che ne fanno uso siano aggiornati, e di qui ad allora si moltiplicheranno i casi di violazione attraverso questa vulnerabilità.

E’ dunque prioritario, prima ancora che discutere di infrastrutture, che la pubblica amministrazione si doti di un framework di lavoro costituito da procedure, prassi, linee guida, e infine anche moduli software che garantiscano una corretta gestione dei sistemi e delle infrastrutture su tutti i livelli; ed è prioritario anche che siano ridotte sensibilmente le migliaia di componenti utilizzate nelle varie amministrazioni con un set di moduli software comuni che siano analizzati, censiti, monitorati e soprattutto mantenuti, fin dalla loro introduzione nel framework, al fine di gestire correttamente il loro uso e il loro ciclo di vita, identificando e correggendo le eventuali vulnerabilità prima che esse vengano sfruttate per violare i sistemi del cloud nazionale.

Questi punti sono, secondo il mio parere e la mia esperienza acquista negli anni sul campo, molto più critici. Abbiamo una PA che risulta spesso anni luce indietro rispetto ai privati, sia dal punto di vista tecnologico che ancor più dal punto di vista della gestione. E’ molto più grave avere servizi gestiti con orario da sportellista o con procedure mutuate dal mondo analogico che avere i server ubicati in un’area geografica rispetto ad un’altra.

Editoriali

MITRE vittima di zero day Ivanti: anche i migliori le prendono

Tempo di lettura: 2 minuti. Anche le organizzazioni ben preparate come MITRE possono essere vulnerabili a minacce cibernetiche avanzate

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Mitre
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Nel contesto della sicurezza informatica, anche le organizzazioni più preparate possono trovarsi vulnerabili di fronte a minacce persistenti e avanzate, come dimostrato dagli attacchi recentemente subiti da MITRE. Questo caso sottolinea l’importanza di adottare un approccio informato sulle minacce per la difesa contro gli attacchi cyber sempre più sofisticati.

Cos’è MITRE?

MITRE è una corporazione senza scopo di lucro americana con sede principale a Bedford, Massachusetts, e una secondaria a McLean, Virginia. Fondata nel 1958, l’organizzazione opera centri federali di ricerca e sviluppo (FFRDCs) per conto del governo degli Stati Uniti. MITRE è dedicata all’interesse pubblico e lavora su una vasta gamma di questioni di sicurezza nazionale, aviazione, sanità, cybersecurity e innovazione del governo.

La missione principale di MITRE è quella di risolvere problemi complessi per un mondo più sicuro, fornendo ricerca, sviluppo e consulenza strategica ai vari enti governativi per aiutarli a prendere decisioni informate e implementare soluzioni tecnologiche avanzate. Uno degli aspetti notevoli del lavoro di MITRE è il suo impegno nella sicurezza informatica, attraverso lo sviluppo di framework e strumenti come il Common Vulnerabilities and Exposures (CVE) e l’ATT&CK framework, che sono largamente utilizzati a livello internazionale per la gestione delle minacce e la protezione delle infrastrutture critiche. Per ulteriori informazioni, puoi visitare il sito ufficiale.

Dettagli dell’attacco subito da MITRE

MITRE, un’organizzazione che si impegna a mantenere elevati standard di sicurezza cibernetica, ha recentemente rivelato di essere stata vittima di un attacco informatico significativo. Nonostante la solidità delle sue difese, MITRE ha scoperto vulnerabilità critiche che sono state sfruttate dagli attaccanti, segnalando un tema di sicurezza concentrato sulla compromissione di dispositivi di protezione perimetrale.

L’incidente e le sue conseguenze

L’attacco ha avuto inizio con un’intensa attività di ricognizione da parte degli attaccanti nei primi mesi del 2024, culminata nell’uso di due vulnerabilità zero-day nel VPN di Ivanti Connect Secure, bypassando l’autenticazione multifattore tramite session hijacking. Questo ha permesso agli attaccanti di muoversi lateralmente e infiltrarsi profondamente nell’infrastruttura VMware di MITRE, utilizzando account amministrativi compromessi e un mix di backdoor sofisticate e web shell per mantenere la persistenza e raccogliere credenziali.

Risposta di MITRE all’incidente

La risposta all’incidente ha incluso l’isolamento dei sistemi colpiti, la revisione completa della rete per impedire ulteriori diffusione dell’attacco, e l’introduzione di nuove suite di sensori per monitorare e analizzare i sistemi compromessi. Inoltre, l’organizzazione ha avviato una serie di analisi forensi per determinare l’entità del compromesso e le tecniche utilizzate dagli avversari.

Lezioni apprese e miglioramenti futuri

Questo incidente ha rafforzato per MITRE l’importanza di comprendere i comportamenti degli hacker come mezzo per sconfiggerli, spingendo l’organizzazione a creare tassonomie comportamentali che catalogano le TTP (tattiche, tecniche e procedure) degli avversari, che hanno portato alla creazione di MITRE ATT&CK®. Questo evento ha anche stimolato l’adozione del concetto di difesa informata dalle minacce, culminando nella creazione del Center for Threat-Informed Defense. L’incidente di sicurezza subito serve da monito per tutte le organizzazioni sulla necessità di mantenere sistemi di difesa aggiornati e proattivi, utilizzando le risorse come il MITRE ATT&CK, costantemente monitorato anche da CISA i cui bollettini sono riportati puntualmente da Matrice Digitale, per rimanere informati sulle ultime strategie degli avversari e su come contrastarle efficacemente.

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Editoriali

Università, Israele e licenziamenti BigTech

Tempo di lettura: < 1 minuto. Una riflessione sull’eventualità di sospendere gli accordi nelle università italiane con progetti di ricerca israeliani

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A distanza di un mese, l’Italia scopre il progetto Nimbus, di cui Matrice Digitale ne parla da più di un anno, dove Google fornisce un cloud ad Israele per il riconoscimento facciale di tutta la striscia di Gaza.

Essendo #Google una multinazionale, come tante altre #bigtech, si vanta di avere dipendenti maschi, femmine, gender fluid, cristiani, buddisti e pure musulmani.

Poi però licenzia i musulmani ed i bianchi pacifisti perchè partecipano a manifestazioni contro i progetti militari dell’azienda.

Vi sorprenderò: è giusto che lo faccia perchè sono interessi privati e se uno vuole vendere armi, anche quelle non convenzionali, può farlo.

Qui però entriamo nel merito delle Università che protestano per non sviluppare progetti di ricerca militari con l’una e l’altra nazione: questo dovrebbe sollecitare i rettorati ad aprire una riflessione sui progetti militari e l’art. 11 della ns Costituzione che tanto ripudia la guerra.

Quindi se sospendiamo i progetti militari dalle università, si risolve il problema?

NO, e sapete perchè?

Esempio: l’algoritmo del progetto Nimbus sfrutta anche la tecnologia di Google Lens e Photos che sono prodotti di uso civile e quotidiani.

E la cosa vera l’ha detta Bersani in questi giorni ad Otto e Mezzo: esistono tanti progetti accademici di secondo livello che propongono buoni propositi, ma in realtà chi li gestisce ha già presente il fine e l’impiego militare.

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Editoriali

Apple vuole fregarti con lo spot dei 128GB di spazio iPhone: aspetta il 16

Tempo di lettura: 3 minuti. Scopri se 128GB di spazio su iPhone sono sufficienti per le tue esigenze e considera le alternative di iCloud per una gestione ottimale dell’archiviazione.

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Apple iPhone Spot
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L’iPhone 15 promette “molto spazio per molte foto”, come evidenziato nell’ultimo spot di Apple. Tuttavia, la sufficienza dello spazio di archiviazione dipende dall’utilizzo specifico che ciascuno fa del proprio iPhone e dall’opzione di memoria scelta. La capacità di archiviazione base dell’iPhone 15 è di 128GB, un notevole aumento rispetto ai 64GB degli anni precedenti, riflettendo l’esigenza crescente di più spazio dovuta all’ampliamento delle abitudini digitali.

Fotografia e video in Alta Risoluzione

Con le capacità fotografiche dell‘iPhone 15 che includono foto da 48 megapixel e registrazione video in 4K, lo spazio richiesto per questi file ad alta risoluzione è sostanziale. Questi miglioramenti, sebbene accrescano la qualità dei contenuti catturati, consumano rapidamente la capacità di archiviazione locale, rendendo quello che una volta sembrava ampio spazio, ora insufficiente per le esigenze di molti utenti.

iCloud come soluzione?

iCloud di Apple offre una soluzione alle limitazioni di spazio dei dispositivi, con piani che vanno oltre i 5GB gratuiti – quantità decisamente insufficiente per la maggior parte degli utenti. I piani di abbonamento a pagamento di iCloud+ offrono 50GB, 200GB e 2TB di spazio cloud, arricchiti da funzionalità aggiuntive. Di recente, Apple ha introdotto opzioni per 6TB e 12TB di spazio, pensate per utenti con esigenze di archiviazione estese, sebbene queste opzioni comportino costi significativi e la dipendenza da una connessione internet per accedere ai file e ad un aumento di prezzi con contratti unilaterali.

iPhone storage vs iCloud

Mentre i modelli standard di iPhone 15 e iPhone 15 Pro partono da 128GB di spazio di archiviazione, Apple offre opzioni di upgrade a 256GB e 512GB, con un’ulteriore opzione da 1TB per l’iPhone 15 Pro, verificare su Amazon i prezzi e le diverse caratteristiche. Optare per un modello con capacità inferiore e integrarlo con spazio iCloud aggiuntivo potrebbe rivelarsi una scelta più economica e pratica, considerando il costo e la durata potenziale del dispositivo rispetto all’investimento in un iPhone da 1TB.

Il futuro dello spazio di Archiviazione su iPhone

Data l’attuale traiettoria, sembra ragionevole che Apple aumenti la capacità di base di tutti i suoi modelli di iPhone a 256GB nelle generazioni future, e si auspica anche una revisione dell’aliquota gratuita di 5GB di iCloud, per riflettere meglio le realtà del consumo digitale moderno.

Chi vi scrive non casca nella fregatura salvo rottura

Apple invita gli utenti a fare l’upgrade di cellulare un motivo chiaro: cambiarlo e fare cassa. Il messaggio è rivolto agli utenti di iPhone 12 e 13 con le versioni base da 128GB. Chi vi scrive ha un iPhone 12 Pro Max che ha cambiato dopo un 7 plus da pochi GB. L’iPhone non si cambia ogni anno, ma si cambia quando arriva la tecnologia di discontinuità. Nel caso del 7 plus e della versione 12, oltre allo spazio, ad una durata sempre inferiore della batteria, il motivo che mi ha portato al cambio di dispositivo è stato il 5G che ha modificato i tempi di consultazione del Web. Anche la fotocamera è stata gradita al passaggio, ma, dalla versione 12 in poi fino alla 15, c’è poco da aggiungere se non appunto questioni di spazio, qualche avanzamento tecnologico nella fotografia e magari un 5g più veloce per via dei modem nuovi.

Se Apple fa questa proposta ansiolitica, mettendo in mezzo il fatto che possiate perdere la memoria della vostra defunta madre, è perchè le vendite vanno molto male ed il mondo sta sfornando cellulari nettamente superiori con l’Intelligenza Artificiale integrata dove Apple sta scopiazzando per il prossimo modello perchè rimasta indietro.

Sappiate che potete sempre trasferire le foto di mammà sul vostro PC e poi valutare se spostarle nel cloud Apple dove comunque potreste essere costretti nel fare l’upgrade del cloud se ovviamente vorrete fare il backup del dispositivo online. Se avete un iPhone 12 o anche un 14, attendete il primo iPhone AI, il iPhone 16, che arriverà verso settembre. Varrà ancor di più la pena di spostarci anche i propri ricordi.

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